Report dal Libano.
Siamo giunti a Beirut lo scorso fine settimana. La piccola delegazione è composta da Mary, del Cric, Adriana, dello Sci, da Farshid dell’Associazione per la Pace e da me, che, oltre ad essere interessato ai progetti di educazione alla pace e per la risoluzione dei conflitti di Assopace, sono qui per contatti in vista del Forum internazionale sul Medio Oriente che stiamo organizzando a Salerno come Ufficio Pace e Cooperazione internazionale della Provincia.
Troviamo alloggio in un albergo abbastanza centrale, ad Hamra, nella zona musulmana della città. Contrattiamo un buon prezzo per sette giorni.
Già in serata contattiamo alcuni cooperanti italiani, che operano da tempo nella zona e sono qui da prima dell’ultima guerra dei 34 giorni dello scorso luglio e agosto. Definiamo una prima agenda di incontri per il giorno successivo.
Sabato abbiamo appuntamento con Salah Salah, già responsabile dell’Olp per i rifugiati palestinesi in Libano, che ha trascorso lunghi anni nelle prigioni israeliane prima di essere scambiato con un gruppo di sequestrati. Questa esperienza lo ha segnato fino a farlo sembrare più vecchio dei suoi anni. Ora dirige il Social Communication Center – Ajial, nei pressi del campo profughi di Shatila. Suo figlio Rabih, è un possibile partner del progetto che Cric, Ciss e Assopace stanno elaborando all’interno del piano della Cooperazione italiana in Libano promosso dal Ministero degli Esteri.
Il progetto dovrebbe riguardare un aspetto generalmente trascurato degli interventi di cooperazione che si fermano alla ricostruzione delle strutture, mentre qui l’attenzione è rivolta alle persone, e soprattutto ai giovani, che vanno educati alla pratica della risoluzione non violenta dei conflitti. Dei micro-conflitti, quelli che si propongono quotidianamente nelle esperienze concrete di convivenza. Oltre ai training, alla formazione dei formatori locali e alle pratiche di non violenza e di educazione alla pace, il progetto prevede l’organizzazione di campi estivi e invernali cui far partecipare giovani italiani e libanesi e una specifica attenzione alle questioni di genere e all’ambiente.
Nel corso della missione ci renderemo sempre più conto dell’importanza di questi aspetti che inizialmente potremmo considerare marginali, e un po’ troppo esterni alle esigenze di interventi di emergenza. La storia di questo paese e la sua coscienza diffusa, soprattutto tra i giovani, è profondamente segnata dalla lunga esperienza di guerra civile tra componenti religiose e politiche. Tanto che nel febbraio dello scorso anno personalità come Rafic al-Hariri, il leader moderato antisiriano e con buoni agganci occidentali ucciso (con altre 22 persone) in un attentato che molti hanno attribuito a componenti legati alla Siria, hanno assunto il ruolo di simboli dell’indipendenza e dell’autonomia nazionale libanese. Dopo l’attentato ad al-Hariri un gruppo di giovani ha piantato per settimane delle tende in una piazza al centro di Beirut chiedendo verità, democrazia e indipendenza. La protesta è montata fino alla manifestazione di un milione di persone il 14 marzo 2005, ad un mese dall’attentato ad al-Hariri, che ha sostenuto la svolta antisiriana.
Attualmente la coalizione di governo comprende sia esponenti e partiti del cosiddetto Fronte del 14 marzo, che esponenti dell’opposizione parlamentare filosiriana (Amal, la Corrente nazionalista libera del generale Awn ed Hizbullah). Hizbullah è presente nell’esecutivo con tre ministri.
Una prima conseguenza delle vicende del 2005 à stato l’abbandono delle postazioni militari siriane, che in base al vecchio accordo franco-americano del Cairo svolgevano una funzione di protettorato della fragile democrazia libanese, da sempre condizionata da un instabile sistema politico partitico-confessionale.
Per tornare ad Hizbullah e al suo leader Hasan Nasrallah, questi viene visto qui un po’ da tutti come un eroe nazionale, dopo la resistenza all’invasione di luglio, anche se si sa che da un anno, sia Hizbullah che Israele hanno preso a considerare inevitabile un conflitto armato, con un crescendo di scontri sul confine meridionale del Libano, fino alla cattura dei due soldati israeliani sul confine e l’invasione israeliana.
Ma già ora, dopo il cessate il fuoco, riprende il confronto critico tra partiti e componenti confessionali della società libanese.
Insomma, tutto è qui molto complicato. E sarebbe necessario individuare interlocutori intelligenti e affidabili che conoscano bene la composizione della realtà politica e sociale libanese e non siano condizionati dalle sue ramificazioni. Che siano interni ed esterni ad un tempo a questa realtà e ai suoi interessati intrecci.
Un problema. Sia per l’articolazione e lo svolgimento dei progetti di cooperazione che per la comprensione della realtà politica e l’evoluzione del quadro dopo la tregua seguita all’invasione israeliana dell’estate.
Comunque, sabato, dopo aver accettato un invito a pranzo a casa di Salah Salah, preparato con cura e attenzione a tutti i riti dell’ospitalità mediorientale dalla moglie Samira, ci rechiamo nel vicino campo profughi palestinese di Shatila. Shatila nel settembre dell’82, assieme al campo di Sabra, fu esposta al massacro maronita-falaginsta. Sostenuto dalle truppe israeliane, che avevano occupato Beirut alla guida di Sharon. Il conto dei morti di quel massacro non è stato mai compiuto, di certo tra 3000 e 3500 vittime in 40 ore di stragi.
Entriamo nel campo che è già sera inoltrata. Le condizioni in cui sono costretti a vivere i profughi è terribile. Le costruzioni improvvisate e precarie si addossano le une alle altre: non avevo mai visto baracche di tre piani!
In un piccolo locale tra il fango, il selciato sconnesso e i rivoli di una fitta pioggia in un’afa soffocante, è sistemato quello che pensiamo sia un centro giovanile. Qui ci attendono Abu Alì e una piccola delegazione di giovani palestinesi. Parliamo del progetto che prevede il coinvolgimento di associazioni partner locali e la scelta di alcune località in cui attivare gli interventi. Oltre che nei campi vogliamo intervenire nell’area sud. Quella coinvolta dalla guerra.
Con Abu Alì concordiamo una visita per il giorno successivo lungo il confine meridionale, tra i villaggi distrutti dalla guerra.
Quando torniamo in albergo sappiamo del massacro di Beit Hnun, nel nord della striscia di Gaza. Attraverso internet sappiamo che un corteo di protesta di donne palestinesi è stato fatto oggetto ad attacchi aerei. 2 donne uccise davanti la moschea che si sommano alle altre decine di morti dei giorni scorsi: sessanta in meno di una settimana, in gran parte civili. Donne e bambini.
Sul tardi, in albergo, ci incontriamo con Rabih, il giovane figlio di Salah che lavora con Ajial e di fatto lo dirige. Ci sembra che sia quello che meglio capisca il senso del progetto e anche le sue difficoltà.
Secondo Report dal Libano. Domenica 5 e lunedì 6 novembre 2006.
Domenica è giornata di contatti e di ridefinizione dei progetti. Alì ci ha organizzato un incontro con giovani esponenti delle associazioni che possono essere nostri interlocutori. Dopo una manifestazione d’avanti alla Croce Rossa internazionale per protestare contro i massacri di Gaza e per chiedere l’intervento delle istituzioni internazionali, ci vediamo in un bar con giovani universitari, esponenti di un’associazione legata al partito comunista, di un’associazione cristiana, una laica, una legata ad Hezbullah e allo Youth Center dello stesso Alì.
Il lunedì mattina, sul presto, un mezzo inviato da Abu Alì viene a prenderci per il giro nell’area del conflitto dell’estate, lungo il confine sud. La giornata è fredda e piovosa. Con noi un ragazzo del Palestinian Youth Center, e un esponente hizbullah. Raggiungiamo con qualche difficoltà Sidone, facendo molte deviazioni per aggirare le interruzioni stradali conseguenza dei bombardamenti israeliani della rete stradale di collegamento tra Beirut e il sud Libano. A Sidone ci aspetta Abu Alì, con lui arriviamo a Tiro, dove cominciamo a incontrare i militari italiani dell’Unifil. Il loro è un atteggiamento disinvolto. Alcuni sembra che facciano la guardia a una coltivazione di banane, altri entrano in un market a fare shopping: un modo come un altro per sostenere l’economia locale…
Ma più avanti i segni della guerra cominciano a farsi sempre più evidenti: oltre alle voragini dei bombardamenti all’autostrada e alle altre vie di collegamento nord-sud, i ponti sul Litami sono saltati e si iniziano a vedere i vuoti e le macerie dei bombardamenti agli edifici considerati strategici.
A mano a mano che lasciamo la costa e saliamo le montagne iniziamo ad attraversare i villaggi e i centri bombardati. La prima sosta la facciamo a Qana. Qui ci fermiamo vicino ad una piccola moschea distrutta. A fianco, al posto di un edificio abbattuto, c’è uno spiazzo con tre file di tombe. Su due lati, lungo un muro, le foto appese di tanti bambini. Giovani, giovanissimi, alcuni di pochi mesi in braccio alle mamme. E la foto di due miliziani hizbullah davanti all’immagine di Nasrallah. Sono alcuni dei sessanta morti della strage di Qana del 29 luglio. Una seconda strage di Qana, dopo quella del 1996 dell’operazione ‘Furore’ decisa dal governo di Shimon Peres, il futuro premio Nobel per la pace.
Questa volta l’operazione si chiama ‘Giusta retribuzione’, un nome terribile, e sarà per sempre segnata da questa seconda strage di Qana, dove tra i morti civili si conteranno 37 bambini. 17 disabili.
Lasciamo nel vento gelido il luogo della strage. Senza parole. Negli occhi le foto di quei bambini tristi, che pure da qualche parte hanno lanciato i loro urli.
Dopo Qana, Siddiqine, Yatar, Kafra. E Tebnine, dove è il comando delle operazioni italiane lungo il confine. E poi ancora Kounine, Aainata.
Dappertutto case distrutte, fori di pezzi di artiglieria, macerie. E povera gente che raccoglie qualcosa, mentre si ripuliscono le aree e si inizia a sistemare quello che si può.
A Beint Jbail il centro della città non esiste più. Enormi vuoti e macerie lungo tutto il fianco di una collina che doveva essere un intrico di vie nel vecchio centro. Qualcuno ci indica che dalla collina opposta proprio da quella parte sono avvenute le incursioni dei carri, mentre F16 e elicotteri Apache bombardavano tutto il fianco.
Ci indicano la strada dei carri, che parte da un monte più alto, dietro, dove un’alta antenna segnala una postazione di confine israeliana che domina tutta l’area. E hanno negli occhi lo stesso terrore di quelle ore, quando cercavano rifugio nella fuga, raccogliendo bambini e vecchi, e si affidavano a Dio e imploravano i resistenti hizbullah che ritardassero almeno l’avanzata delle truppe. Con quello che potevano.
Il vento gelido si infiltra senza ostacoli tra i ruderi delle case abbattute. Alcuni di quelli rimasti tra i trentamila abitanti della città ci vengono attorno. Muti.
Una anziana donna è seduta davanti al fuoco attizzato in un bidone davanti ad un basso locale, nero e spoglio, lungo la strada. Quello era il suo negozio di verdure, ci dice. Ora più non c’è niente. Niente frutta o verdure, niente da raccogliere o da vendere. Niente da coltivare. Anche la speranza non cresce più qui.
La sua voce è insieme debole e rassegnata. Non parla più e ci guarda. Cosa resta da dire. È un’implorazione la risposta al nostro saluto. Salem.
Poi sono ancora villaggi sparsi sugli spogli monti del Libano meridionale. Aaitaroun, Bilda, Meis el Jabal, Houla…
E Kfar Kila dove costeggiamo la linea di confine, a tre metri da una lunga rete elettrificata che ci separa da una strada interna.
Ci fermiamo. In alto. Di fronte a noi la postazione israeliana. Sotto si distende la pianura della Palestina. I nostri amici la guardano: bella, ci dicono.
In mezzo, a poche miglia, l’insediamento israeliano di Kiriat Shmona.
Riprendiamo la strada per Kharkyla, dopo una rapida sosta che consente ai nostri amici di andare a pregare in una piccola moschea.
È quasi già notte quando arriviamo ad Aaita ech Chaab, tremila abitanti prima delle incursioni della guerra dei 34 giorni.
Abbiamo difficoltà a raggiungere il municipio, dove dovrebbe attenderci un rappresentante della municipalità. Andiamo avanti e indietro più volte, quando capiamo che il municipio semplicemente non c’è più. Al suo posto delle tende.
Più avanti, le autorità locali ci conducono ad un largo spiazzo tra le macerie. Sotto di noi, ci dicono, c’è la scuola. Nel buio i muri diroccati, le case sventrate, il fango e i cenci che sentiamo sotto i piedi ci rendono il senso innaturale delle devastazioni della guerra.
Andiamo anche più avanti, dove c’erano l’ospedale e un centro giovanile. Ora l’Iran ha inviato alcune tende e una infermeria da campo.
Il Qatar ricostruirà qualcosa, come pure il governo libanese qualcosa farà. Ma la vita, qui, come riprenderà? Chi ricostruirà le persone e non solo le cose?
Così pensiamo mentre torniamo a Beirut. E ci consola giusto un poco pensare che sarà questo il nostro progetto.
Ernesto Scelza