Storie del brigantaggio post-unitario nel picentino
“Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
Giuseppe Garibaldi
…E per ora vedo ancora che, quando torno a Napoli, il mondo è mutato per me e per i miei amici. La parola è libera, la stampa è libera, molte vie si sono aperte dinanzi a me. La differenza è come dalla notte al giorno: se dovessi tornare al passato, mi parrebbe di scendere nella tomba. Abbandono le strade centrali, vado nei quartieri bassi, e ritrovo le cose come le lasciarono i Borboni. I fondaci Scanna-sorci, Tentella, San Crispino, Pisciavino, del Pozzillo, ecc. sono là sempre gli stessi, coi medesimi infelici, forse ancora più oppressi, più affamati di prima. Tutta la differenza, se mai, sta in ciò che il muro esterno fu imbiancato. E’ allora sono tentato di domandare a me stesso: Ah!dunque la libertà che tu volevi, era una libertà per tuo uso e consumo solamente?...I lavori pubblici adoperarono per un momento alcune braccia, ma non crearono un’industria ed una borghesia nuova. Le strade fecero rialzare i prezzi delle derrate, ma non mutarono in modo alcuno le condizioni sociali del contadino. Le città ed i borghi sono oggi purtroppo quel che erano prima, e le condizioni, le relazioni degli abitatori restarono sempre le stesse. Il Governo costituzionale è in sostanza il regno della borghesia. La classe dei proprietari, in mancanza d’altra, divenne la classe governante, e i municipi, le province, le opere pie, la polizia rurale furono nelle sue mani (…).
Pasquale Villari da Il Sud nella storia d’Italia a cura di Rosario Villari
“Il brigantaggio è la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie”.
Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio
Ieri sera la Banda Cerino composta di 34 briganti invase il Villaggio di Gauro sua terra nativa assassinando la persona di Antonia Alfano, figlia del fu Francesco, di anni 68, vedova di Giuseppe Conte, nativa di Gauro, sempre cresciuta nella casa di Gaetano Del Pozzo di colà rendendosi così familiare di quella famiglia. Gauro è il luogo natio di Luigi Cerino Capobanda di briganti, fattosi ormai memorando per delitti ed orrori, lasciandovi ad ogni piè sospinto tracce di dolore, di sangue e di misfatti, di ogni genere. Quando il Capobanda Cerino, questa tigre…”.
Rapporto del Delegato Capo di Montecorvino Rovella settembre 1866
“Io tutto conosco, tutto so, come so pure chi mi vuol bene e chi mi vuol male; io però mi rido di tutti, perché oggi stò qui domani starò in Francia”.
Capobanda Luigi Cerino
LUIGI CERINO, “LA TIGRE” DI GAURO
(Gauro 1841 - Ruvo del Monte 1867)
di Walter Brancaccio
Morì lontanissimo dai vecchi luoghi delle sue scorrerie, a centinaia di chilometri di distanza dal suo paese, in una zona quasi sconosciuta della provincia di Basilicata. Era nato a Gauro, il 27 marzo 1841, da Carmine Cerino e Nicoletta Marrandino. Principato Citeriore, come si chiamava allora, poco più di un villaggio di trecento anime ai piedi di una montagna, a metà strada tra Montecorvino Rovella e Giffoni Valle Piana di cui ha fatto parte fino al 1815 quando fu aggregato al comune di Montecorvino. Nel Decennio Francese (1806-1815) il governo aveva trasformato l’assetto amministrativo dello stato istituendo le Provincie, i Distretti, e i Circondari. I comuni furono divisi in tre categorie e i paesi molto piccoli, come Gauro, che prima del 1806 erano delle universitas autonome, furono riuniti ai Comuni più grandi vicini a loro.
Di Luigi Cerino, bracciante agricolo, “di complassione e statura giusta”, detto Chiavarullo o Pipino, non esistono foto o ritratti; un'ironia della sorte se osserviamo le numerose foto di briganti e di fiancheggiatori scattate negli anni cruciali del brigantaggio salernitano proprio dal suo compaesano, il fotografo Raffaele Del Pozzo, nato a Gauro nel 1828. Gauro nell’immediato periodo post-unitario era un paese povero e arretrato, ma è il paese in cui erano nati i fratelli Luca e Pomponio Gaurico e il matematico Gian Camillo Gloriosi. La piazzetta, sull’orlo di un burrone, la chiesa retta dal canonico Pisano e di fronte la bettola di Ciriaco Balzo dove si vendevano vino, rosolio, anice, salumi e latticini, la casa del ricco proprietario Don Uriale Foglia, Don Carmine Foglia, che aveva partecipato nel 1854 al Comitato insurrezionale che voleva portare sul trono Luciano Murat, e Don Francesco Foglia, il distaccamento della Guardia Nazionale, Salvatore Vassallo e famiglia, il negozio di privative di Franscescoantonio Foglia “accanito manutengolo” che provvede la banda Cerino di sigari e tabacco, il palazzo settecentesco della famiglia Del Pozzo e poco altro. Intorno alla casa o alle case dei grossi possidenti del paese si raccolgono le misere case dei contadini, basse con le porte che si affacciano nei vicoli bui delle viuzze. La famiglia Cerino era una delle tante famiglie di braccianti agricoli che conducevano una vita di sussistenza, al limite della sopravvivenza. La rapida “conquista del Sud” aveva fatto sperare in un rivolgimento sociale oltre che politico, a provvedimenti radicali sul problema della terra, che avrebbero garantito condizioni di vita migliori alle classi subalterne. L’illusione era durata poco. Se ne erano già accorti i contadini siciliani di Bronte, Randazzo, Regalbuto. In “Bronte, cronaca di un massacro, che i libri di storia non hanno raccontato” bellissimo film di Florestano Vancini, si racconta l’altra faccia del Risorgimento, la rivolta sociale di una paese siciliano e della dura repressione del luogotenente di Garibaldi Nino Bixio intervenuto a Bronte a difesa degli interessi inglesi e dei proprietari terrieri per ristabilire l’ordine. I contadini e i carbonai di Calogero Gasparazzo nell’agosto del 1860 massacrano una decina di “galantuomini” reclamando la divisione delle terre del demanio promesse da Garibaldi, Bixio fa fucilare i capi della rivolta dopo un processo sommario. L’episodio di Bronte è emblematico, del fatto che i democratici agivano per “il Re di Prussia” senza tenere in alcun conto le ragioni dei “cafoni”. I proprietari terrieri, diventati unitari e liberali, tranne poche eccezioni, e i nuovi borghesi diventarono ancor più ricchi e potenti impadronendosi delle amministrazioni comunali, delle terre demaniali ed ecclesiastiche, del controllo degli usi civici. L’emarginazione sociale ed economica dei contadini, dei braccianti e dei pastori divenne sempre più intollerabile, erano collocati al gradino più basso della scala sociale, subito dopo i mendicanti e i vagabondi. La situazione variava da regione a regione, da provincia a provincia. Nel Principato Citeriore poche famiglie di notabili e di proprietari detenevano la grande maggioranza delle terre affittate a coloni, lavorate dai braccianti custodite talvolta da contadini ricchi (massari). La famiglia Del Pozzo, ricchi proprietari terrieri di Gauro costituiva una delle punte più avanzate del liberalismo di tutto il circondario. Federico Del Pozzo (e Luigi Melillo di Montecorvino) all’epoca della spedizione di Sapri di Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera, facevano parte del Comitato Unitario che avrebbe dovuto aiutare lo sbarco nella provincia di Salerno. Tra i pochi che risposero all’appello di Pisacane vanno menzionati Vincenzo Rega e Pietro Botta di Giffoni, Pasquale, Pietropaolo e Agostino Budetta, Luigi Pizzuti, Giuseppe Masucci, Agostino d’Aiutolo di Montecorvino Rovella, Tommaso Calabritto di Pugliano. Gaetano Del Pozzo invece era un personaggio di spicco del periodo post-unitario, influente possidente, liberale di “lungo corso”. Dopo l’omicidio del sindaco Gaetano Maratea, fu assessore facente funzioni di sindaco di Montecorvino Rovella dal 12 agosto 1866 al 20 luglio 1867, a dimostrazione della stima e del coraggio che godeva tra i cittadini. A Gauro nel 1848 avvenne una “rivolta” anti-borbonica. “Si sollevarono i cittadini per opera di Salvatore De Cesare che vi si era rifugiato, e di Pasquale Pisano, Nicola Granozio, Vincenzo e Angelo Ferullo, Francesco, Pasquale, Domenicantonio, Cosmo, Geremia e Giuseppe Vassallo, Sabbato Cerino,Vincenzo, Pasquale e Francesco Lupo, Domenico e Giuseppe Faiia, Sabbato Giffoni, Saverio, Matteo e Salvatore Alfano, Luca Linguiti, Vincenzo e Andrea Buoninfante, Andrea Marino, Giuseppe e Francesco d’Alessio, Pietro e Matteo Vece.
Il Regno delle Due Sicilie è crollato da poco e già in molti paesi della provincia divampano le reazioni borbonico-clericali ed appaiono sui monti e sui boschi le prime bande armate di contadini che assaltano i paesi, bruciano gli archivi e il catasto, saccheggiano le case dei “galantuomini”, innalzano il vessillo di Francesco II, il re in esilio. La prospettiva di una restaurazione borbonica e più ancora il movente economico-sociale (la mancata risoluzione della questione demaniale) spingono migliaia di contadini allo scontro frontale, alla rivolta armata contro il “nuovo” ordine sociale. “Il processo di privatizzazione dei demani comunali era praticamente concluso a vantaggio dei “galantuomini”, lasciando un residuo di terre pubbliche coltivabili, che Giustino Fortunato faceva ammontare a circa 300.000 ettari, e un immenso strascico di risentimenti e di odi”. Ai contadini, braccianti e pastori defraudati di quel poco che possedevano e disillusi dal nuovo Stato unitario rimasero due possibilità, come disse lo stesso Giustino Fortunato,”o brigante o emigrante”. Nella testa e nei programmi dei liberali, all’indomani dell’Unità vi era un'unica necessità, ben definita da Antonio Salandra: “Riaffermare l’esistenza politica ed economica dello Stato italiano è stata, e doveva essere, la sua prima e massima preoccupazione. Ma ora che tale esistenza è fuori di questione, una più prolungata trascuranza…sarebbe una colpa”. L’auspicio di Salandra che prima o poi venga affrontata la “questione sociale” nel Sud con il miglioramento delle condizioni delle classi subalterne e di una migliore distribuzione della ricchezza si scontra con il programma economico-sociale della Destra storica che non contemplava una politica a favore dei ceti meno abbienti ma solo, per dirla con il Villari, “il massimo bene della nazione era la massima accumulazione del capitale” e quindi lo sfruttamento economico e finanziario del Sud e delle campagne per favorire la trasformazione industriale del Nord. Con una vena di amarezza afferma che nel Sud “Le classi (subalterne) sono abbandonate alla miseria e alla fame, oppresse in mezzo alla libertà”. “Oppresse in mezzo alla libertà” è un' espressione magnifica che rende l’idea dello stato d’animo che permeava lo spirito pubblico nei paesi e nelle campagne. Quando apparve chiaro che i provvedimenti radicali attesi sul problema della terra non ci sarebbero stati, i contadini meridionali passarono dalle sommosse e dalle invasioni dei demani usurpati alla ribellione armata allineandosi per motivi opportunistici alle posizioni reazionarie dei nostalgici del vecchio regime borbonico che combattevano unicamente per il trono e per l’altare, non certo per difendere i diritti dei contadini che non avevano mai seriamente tutelato. Senza un'organizzazione di classe, senza un’unità d’azione e un programma preciso di rivendicazioni, (i contadini di Tommaso Munzer tre secoli prima ne avevano uno più moderno!)si lanciarono in una guerra disperata e senza prospettive. “Odi di famiglie ed ambizioni personali, prepotenze della nuova classe dirigente che, nuova ai piaceri del comando, sfoga i propri rancori e le proprie ambizioni avvalendosi della protezione che le deriva per i suoi rapporti con i rappresentanti del nuovo regime; la incomprensione che la nuova classe dirigente mostra nei confronti dei miseri e degli oppressi, che nessun beneficio hanno ottenuto con la conseguita trasformazione politica; e le promesse non mantenute consentono ai nostalgici dell'antico regime, ossia alla vecchia classe dirigente ultra-conservatrice, agli impiegati destituiti, al clero ed ai vescovi fautori del potere temporale di servirsi della plebe per opporsi energicamente al nuovo ordine politico. E gli oppressi ascoltano questa voce, credono di poter conseguire un miglioramento materiale e, dimentichi di quella che era stata la loro esistenza prima del 1860, si illudono che una eventuale restaurazione borbonica possa loro arrecare vantaggi e benefici. Intorno ad una speranza e ad una illusione che concretizza tutte le loro aspirazioni, i paria si cercano e si uniscono non con il diretto ed unico scopo di delinquere, ma soltanto per protestare, per ribellarsi al potere costituito, animati dalla illusione di potere, in tal modo, migliorare le condizioni di vita cui sono costretti, sfuggire alla miseria, al servaggio, alla prepotenza ed al sopruso, salvare la propria esistenza e vendicare i torti subiti che la giustizia dello Stato lascia impuniti”. Cosa altro potevano fare? Incominciarono ad invadere i paesi per distruggere le mappe catastali e i comandi delle Guardie nazionali per procurarsi armi e munizioni. Sostenute dall’elemento borbonico- clericale si diedero al saccheggio e alla vendetta. L’orrore dominava il cuore di questi uomini. “L’orrore, in fondo, dominava il cuore di questi uomini; l’orrore di una quasi certa fine, in combattimento o per tradimento, nella selva o fucilati in piazza. Il loro effettivo coraggio era quello più difficile a conquistarsi: il coraggio di chi non ha speranza alcuna per sé, per la propria gente, per i paesi miserabili dai quali è fuggito nei boschi”.
La coscrizione obbligatoria
L’introduzione della leva militare obbligatoria contribuì ad alimentare l’odio contro il nuovo Stato e i nuovi padroni. Il fenomeno della renitenza alla leva e in misura minore della diserzione, fu colpevolmente sottovalutato dal governo di Cavour che si era illuso che i contadini meridionali sarebbero stati pronti a militare nel nuovo esercito italiano. Il governo piemontese aveva bisogno di forze fresche per rafforzare le fila dell’esercito in previsione di una nuova guerra contro l’Austria. Molti ex soldati borbonici rifiutarono di arruolarsi nel nuovo esercito italiano e furono imprigionati in luoghi inospitali, in fortezze come Fenestrelle, dove molti morirono di fame, di freddo e di malattie. Dopo il crollo dei Borboni, furono richiamati alle armi nel 1861 i giovani (18.000 uomini) nati dal 1836 al 1841. Si crea così una leva obbligatoria in tutto il territorio nazionale, per tutti i giovani che hanno compiuto vent’anni, per un periodo di leva molto lungo, della durata di ben otto anni, come previsto da una legge borbonica del 1834. Per le classi subalterne del sud la forza- lavoro dei figli era indispensabile per sopravvivere dignitosamente, la partenza di un figlio per il servizio militare significava spesso precipitare nella miseria più nera. I democratici furono facili profeti nel prevedere che la leva avrebbe fatto affluire nelle file del brigantaggio migliaia di reclute, in una fase in cui “le reazioni” incominciavano ad espandersi a macchia d’olio in tutto il meridione . Per non andare a fare il soldato, moltissimi giovani della provincia di Salerno si diedero alla campagna. Secondo lo storico Lorenzo Del Boca erano “almeno 10mila soldati dell’esercito borbonico, migliaia di braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali”. La leva ebbe quindi uno scarso successo. Secondo alcuni dati, furono soltanto 20 mila (su 72 mila previsti) i giovani che si presentarono alla prima leva militare nel 1861. Il governo tentò di imporre la leva con i rastrellamenti e le fucilazioni. La leva avveniva anche con il sorteggio, con il bussolotto, un'estrazione a sorte che permetteva anche di evitare il servizio militare e si poteva pagare qualcun altro per farsi sostituire, nel caso di sorte avversa. E’ evidente che tale sistema favoriva il mercimonio e la corruzione e che alla fine erano sempre i più miserabili a dover partire. La diserzione era un atto estremo che era pagato a caro prezzo: le famiglie dei disertori venivano perseguitate, i renitenti se catturati, fucilati sul posto. Nel circondario di Benevento ci furono tumulti per la leva, volendo “i galantuomini escludere i suoi congiunti dal bussolo, facendovi invece comprendere altri infelici cui non spettava”. Abbiamo già visto come il capobrigante Gaetano Manzo di Acerno si fece brigante per sfuggire alla leva, vittima pare, di una frode perpetrata dal sindaco di Acerno Francesco Criscuolo che in sede di sorteggio per la leva del gennaio 1861 favorì un suo protetto, un certo Vito Olivieri a danno di Manzo. Quasi tutta la sua banda era costituita da renitenti alla leva o disertori."Il brigante è, nella maggior parte dei casi un povero agricoltore e pastore di tempra meno fiacca e servile degli altri che si ribella alle ingiustizie e ai soprusi dei potenti e, perduta ogni fiducia nella giustizia dello Stato, si getta alla campagna e cimenta la vita, anelando vendicarsi della Società che lo ridusse a quell’estremo”. “Negli anni ’60 del secolo scorso nel Mezzogiorno c’era la guerra, e una guerra feroce, senza leggi internazionali da rispettare, senza prigionieri, senza trincea e retrovia. Dei due eserciti, quello “vero”, con le divise in ordine e gli ufficiali usciti dalla scuola militare di Torino se ne stava di presidio nei paesi, isolato come se fosse nel cuore dell’Africa, fra gente che aveva lingua e costumi incomprensibili e quasi sempre un figlio o un fratello fra le montagne a tenere testa agli “invasori”. L’esercito italiano schierò nel Sud 120.000 uomini, circa 8mila carabinieri, migliaia di militi della Guardia Nazionale. I ribelli meridionali divisi in 488 bande, male armati e senza una guida politica e militare centralizzata opposero al terrore di Stato, allo stato d’assedio e ai Tribunali militari il terrore contadino e anarchico e spesso una furia iconoclasta di distruzione e di vendetta. Scrive De Jaco:”Col terrore i generali piemontesi cercavano di spezzare la solidarietà dei “cafoni” con i briganti. Ma il terrore non è stata mai arma sufficiente e valida per isolare i combattenti dalla popolazione che li sostiene”.”Non potete negare”, affermava il liberale Giuseppe Ferrari in Parlamento,”che intere famiglie sono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotto una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi è fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi”.
Luigi Cerino, ex soldato sbandato del disciolto esercito borbonico, era stato richiamato alle armi in seguito alla leva obbligatoria del 9 luglio 1861, ma si rifiutò di indossare la divisa italiana. Si diede “alla macchia”, aggregandosi alla banda armata guidata da Antonio Maratea (Ciardullo) di Campagna, che già imperversava nel circondario di Campagna, di cui era diventato uno dei “caporali” insieme a Gaetano Manzo di Acerno. In quell’epoca, l’11 gennaio 1864, nel Bosco S.Benedetto, cinque uomini tra cui Luigi Cerino sequestrano il prete liberale Giuseppe Olivieri e il dottor Luigi Calabritto. Furono trattenuti sui monti di Campagna per circa due mesi; furono liberati dopo aver pagato per il loro riscatto la somma di lire 11751,98. Al signor Calabritto fu tagliato parte dell’orecchio destro. Il racconto dettagliato del sequestro si trova in due opuscoli scritti uno dall’avv.Luigi Calabritto e l’altro dallo stesso Olivieri. ”Lungo la strada rotabile fra Faiano e Pugliano, scrive Calabritto, che è tortuosa e piena di voltate, per guadagnare la cresta delle montagne, su cui sono le borgate di S.Tecla e Pugliano, in quei luoghi solitari, da certi cespugli, sul ciglione a sinistra della strada, ad un tratto, balzarono fuori cinque truci ceffi che, spianate le doppiette e gridando: ferma, ferma, arrestarono la carrozza e imposero ai passeggeri di scendere. Scesero il prof.Olivieri e mio padre, che fu affunato in modo da non poter dare un passo; finalmente allentarono le funi, addentrandolo insieme con l’altro catturato per quel bosco (il bosco di S.Benedetto) impervio, folto dalla neve caduta in quel giorno, finchè, all’alba del giorno seguente, toccarono la cima del monte Polveracchio. “E noi intanto, scrive l’Olivieri, si andava come la serpe all’incanto, con gli occhi tesi, gli occhi sbircianti nell’oscurità, gli animi alti e sollevati dalla speranza. Taciti, l’uno l’altro per lo stretto e duro calle, passato il Picentino su di un sottil trave, che dava il capogiro col pericolo di un tuffo nell’acqua, fummo di là, sulla destra sponda, in quel di Giffoni Valle Piana, pigliando la via maestra, che mena al Mercato di Giffoni. Due briganti in testa, due ai lati, uno in coda, senza veder nè incontrare anima viva. Poi svoltammo a destra, guadando un fiumicello e dirizzandoci verso Gauro, borgatella di Montecorvino Rovella. Gaurico era, non già Pomponio o Luca, i celebri scienziati del secolo XVI, ma il Cirino, capoccia della masnada, che scorazzava e faceva le sue prodezze nei nostri dintorni: di Gauro egli era nativo, e lì aveva i suoi. Onde in que’ pressi, sbrancatosi un momento, che noi riposavamo il corpo lasso , ne tornò con vino, pane e companatico”.
“Un’anima dannata”
“Chi erano la piccola masnada? Parte o drappello della gran banda capitanata dal famigerato Giardullo. Duce, come ho detto, della poca schiera, destinata a scorrere e predare per le nostre contrade, era il gaurico Cirino, nato nel 1841, disertore dell’esercito, indurato negli stenti e nei disagi, audace, un’anima dannata. Scalzo e sbottonato l’ho visto dormir sulla neve, e poi scalandrare a tutto spiano con monotone canzoni”. Quando la banda Giardullo fu distrutta dai carabinieri al comando del capitano Frau e il capo fucilato a Campagna nel novembre 1864, Cerino si era già allontanato, scampando alla morte e trovando sicure basi sui monti e nei boschi del picentino. Formò una propria piccola banda, formata da giovani carbonai, pastori e braccianti agricoli. L’inglese Moens sequestrato dalla banda Manzo nella quale si trovava il Cerino con altri due sequestrati così descrive un frammento di vita quotidiana. Nel frattempo i briganti “…radunatisi intorno alla caldaia, divorarono tutta la pasta con l’aiuto di dita e cucchiai. Ora aveva il tempo di esaminarli uno per uno: erano tutti di sano e bello aspetto. In quel luogo si trovavano riunite le due formazioni della banda, trenta uomini sotto il comando di Gaetano Manzo e dodici sotto quello di Pepino Cerino. Era stato quest’ultimo a sequestrare i due uomini nei pressi del villaggio di Giffoni, alle cinque del pomeriggio del 16 aprile, mentre rincasavano dopo aver concluso degli affari inerenti alla morte di un loro parente. La banda meno numerosa (quella di Cerino) comprendeva quattro donne, vestite come gli uomini e con capelli tagliati così corti che le avevo scambiate per ragazzi. Esse dimostravano un maggior attaccamento ai gioielli che i membri della banda di Manzo, e in quell’occasione si erano bardate in mio onore: una di loro aveva non meno di ventiquattro anelli d’oro di varie dimensioni e con pietre diverse, altre venti, sedici e dieci a seconda della loro ricchezza. Portare l’orologio con la sola catena d’oro sembra loro dozzinale e misero. Cerino e Manzo avevano catene grosse come un braccio appese sopra il gilè con spille meravigliose che le chiudevano: queste erano cucite addosso per maggiore sicurezza. Portavano anche mazzetti di portafortuna in posizioni molto visibili. (La descrizione delle uniformi delle due bande” si può leggere nel capitolo sesto di questo dossier che è stato concluso, insieme agli altri, dopo accurate ricerche nell’Archivio di Stato di Salerno nell’ottobre.novembre del 2006).
I primi sequestri
Il 15 maggio 1865 la banda Manzo sequestrò gli inglesi Moens e Murray. Con gli inglesi sui monti vi erano altri due ricattati dalla banda Cerino associata a quella di Manzo. Il capobanda Cerino aveva sequestrato, infatti, a Giffoni Valle Piana Don Francesco Visconti e suo cugino Tommasino, di 14 anni, il 16 aprile mentre rincasavano (dopo aver concluso degli affari inerenti alla morte di un loro parente). “Il piccolo Tommasino era abbastanza grasso e sembrava godere di questo tipo di vita come un bambino, non si rendeva conto del pericolo che correva. Era il favorito della banda ed era già un mezzo brigante”. Il Visconti svolse poi il ruolo di mediatore tra la famiglia Moens e la banda Manzo. In questo periodo Cerino strinse un patto di alleanza con il capobanda Cicco Cianci di Montella. Era con lui il 16 ottobre 1865 quando incontrarono sul montagnone di Serino la comitiva Manzo con gli Svizzeri appena sequestrati il giorno prima a Pellezzano.”Ad un tratto uscirono dalla boscaglia sei uomini armati di tutto punto con pugnali e fucili e si avvicinarono al bivacco: erano briganti di un’altra banda che operava nello stesso territorio in cui operava il Manzo; con loro vi erano anche i loro capi Luigi Cerino e Ciccio Cianci; erano di passaggio e fu per loro un atto di doverosa cortesia fermarsi per un poco. I briganti avevano portato agli amici briganti del vino che bevvero allegramente insieme, offrendone anche ai prigionieri, dopo di che si addormentarono profondamente, perché stanchissimi”. La compagna di Cerino si chiamava Carminella Telese, fu catturata nei pressi di Salerno ed “adottata” dal ricco possidente di Giffoni Don Elia Visconti di Giffoni, il cui figlio Francesco era caduto nelle mani della banda ed era stato trattato bene da Carminella. Nel maggio del 1866 la banda Cerino si aggira nella provincia di Avellino, sui monti di Bagnoli, Montella e Serino, spesso sui monti di Calabritto e Campagna, dove è in relazioni con la banda Stiuso. I continui passaggi dalle montagne di Serino a quelle di S.Severino e di qui alle fabbriche dell’Irno inducono le autorità a chiedere di traslocare la stazione dei Carabinieri di Ornito nel comune di San Mango, resa superflua dall’installazione di quelle a Gauro e Montevetrano. La stazione di Ornito composta di soli cinque Carabinieri, dovrebbe essere rinforzata di otto o dieci soldati, come si è praticato in Gauro e in Giffoni”.
La Banda Cerino-Cianci
La banda armata di Cicco Cianci “volto butterato, barba rossa, e pingue” si costituì sui monti del Terminio, nella pianura di Verteglia e sulle Ripe della Falconara. Una banda con chiare connotazioni filo-borboniche con a capo Francesco Cianci (Cicco Ciancio), un massaro di Montella caduto in disgrazia formata per lo più briganti di Volturara Irpina e Montella. Con lui anche tredici ex militari borbonici. I suoi luogotenenti erano il famoso Pagliuchella e Alessandro Picone, che aveva recitato un ruolo importante come capo-popolo nella rivolta antiunitaria di Volturara Irpina del 7 aprile 1861. La banda che per molti anni ebbe il controllo di un ampio territorio dell’Alta Irpinia operando furti, ricatti e sequestri di persona viene sterminata il 21 novembre del 1866 in un conflitto a fuoco con i Carabinieri e Guardie Nazionali alle falde del Cervialto, sul monte Calvello (1579 m) in territorio di Lioni. Per l’uccisione di Cianci era stato stabilito un premio di Lire 2000 e una pensione annua di L.300. Il cadavere di Cicco-Cianci fu trasportato a Montella e mostrato per le strade su un carro ad esempio per tutti e poi appeso a testa in giù. Picone si era costituito nel giugno del 1862, nel marzo del 1863 venne condannato a venti anni di lavoro forzati. Pagliuchella fu sorpreso ed ucciso dalla guardia nazionale di Volturara in una radura che porta ancora il suo nome “il sierro di Pagliuchella”. Il suo cadavere fu caricato su un mulo, portato in piazza e appeso al tiglio del paese. Della temibile banda di Cicco-Cianci si salvarono soltanto Ferdinando Pica, espulso dalla banda Cerino, che formò una nuova banda di sette briganti che si aggirava sui monti tra Castiglione, San Cipriano Picentino e Sieti, e qualche volta si estende fino a Serre di Gaiano e sul monte Stella, associandosi alla banda di Andrea Ferrigno di Acerno. Circa un mese prima Luigi Cerino si era distaccato con i suoi da Ciancio per contrasti con il capobanda di Montella e fu la sua salvezza. Si rifugiò sui monti del versante salernitano, la Celica, i monti intorno a Serino, Acerno, Giffoni e Montecorvino Rovella. Poteva contare sull’appoggio di numerosi manutengoli che lo tenevano informato degli spostamenti della truppe e non gli facevano mancare vitto, armi e munizioni. La banda reclutava i suoi uomini tra i carbonai di Lorenzo D’Andria sui Piani di Giffoni. Lorenzo Andria, 42 anni, imprenditore boschivo, era un fiancheggiatore importante della banda, inserito nell’elenco dei “pericolosissimi” cittadini di Giffoni. Cerino aumentò la sua banda con quattro carbonai di Andria: i fratelli Domenico e Antonio Verderame, Donato Pauciello e Vito De Martino. Tommaso Naddeo di Castiglione e Andrea Carpiniello, negoziante di Giffoni, amministratore dei beni di Giuseppe Mancusi, erano altri famosi borbonici e manutengoli. Non è difficile seguire gli spostamenti della banda da un paese all’altro, da una montagna all’altra. Cerino si lascia dietro una scia di sangue. Il 9 febbraio 1866 Cerino e sei briganti vestiti da Carabineri e armati di carabine militari e di fucili a due colpi si trovano nel Vallone dell’Inferno a Giffoni Sei Casali dove rubano una pecora al pastore Giuseppe Landi allontanandosi verso Calvanico. Il 15 aprile 1866 la banda sequestra un ricco possidente di Campagna Agostino Zappulli. Lo rilascia circa dieci giorni dopo con l’orecchio destro reciso e con il pagamento di 3000 ducati. Il 21 aprile dello stesso anno Cerino sequestra Francesco Turco di Montecorvino Rovella. Nel giugno del 1866 la banda al completo è sul monte Pettine a Giffoni, dove viene ucciso il caporale dei carbonai Giuseppe Pisani di Giffoni, reo di aver fatto costituire il brigante Terminio Pellegrino, alias Bomba. Pisani considerato una “spia del Comune”, viene trucidato a colpi di fucile e revolver. (Per la cronaca dettagliata dell’omicidio si veda il capitolo undicesimo di questo dossier chiuso in redazione nel settembre 2006.).
Le misure più energiche che misero in grande difficoltà la banda, arrivavano dal comune di Montecorvino dove Cerino aveva i suoi più accaniti nemici. Tra questi l’assessore comunale Gaetano Del Pozzo già ferito dal Cerino, il Sindaco in carica Gaetano Maratea, il Delegato di Pubblica Sicurezza Giovanni Del Vecchio che gli dava una caccia incessante anche fuori dal mandamento di sua giurisdizione tanto da provocare una nota di protesta del delegato di P.S. di Giffoni Valle Piana. La banda subì l’arresto di numerosi manutengoli e parenti, sia di Cerino che di Vassallo, tra cui Alessandro Paraggi, Giuseppe Pecoraro e Biagio Mellone, “uomini tristi oltre ogni credere”, furono sospese le attività di carboni di Lorenzo D’Andria a Giffoni e quelle di Acerno, uccisi due briganti della banda, arrestato il brigante Gentile di Giffoni, aumentate le taglie e i premi che incentivavano la delazione e lo spionaggio. Furono prese drastiche misure per impedire i rifornimenti alla banda: “Chiunque vorrà uscire fuori dell’abitato del proprio Comune per portarsi in campagna dovrà munirsi di una carta di circolazione che verrà rilasciata dai Sindaci sotto la loro più stretta responsabilità. Nella medesima sarà indicato il luogo per dove il portatore della medesima è diretto. Coloro che abitano in campagna dovranno in vista della presente ritirarsi nei propri paesi. Niuno potrà portare commestibili in campagna senza l’espressa autorizzazione del Sindaco, il quale nella licenza dovrà indicare il genere e la quantità degli stessi, le persone per le quali servono, ed i punti dove sono diretti”. Per comprendere meglio il contesto politico-sociale locale in cui si muoveva la banda che aveva vaste protezioni nei villaggi di Gauro, Votraci ed Occiano, si rimanda al capitolo ottavo. “Fatto sindaco lo sventurato Sign.Gaetano Maratea diede loro una così attiva persecuzione, che molti si presentarono e gli altri vennero arrestati; di essi parecchi vennero assicurati alla giustizia nelle masserie dei fratelli del ripetuto Pasquale Budetta: e fra costoro è noto Alessandro Paraggio, Giuseppe Pecoraro e Biagio Mellone, uomini tristi oltre ogni credere…”.Cerino poteva contare su una solida ed estesa rete di protezione e connivenze a Montecorvino, dove il partito borbonico-clericale era in maggioranza guidato da Pasquale Budetta, deputato al parlamento e consigliere provinciale, da Antonio Giudice Matteo e dal parroco di S.Martino Sig.Bassi. Il desiderio di vendetta di Cerino si salda con una cospirazione “borbonico brigantesca”. L’amministrazione comunale nel mese di aprile deliberò di chiedere un rinforzo della locale guardia nazionale. Lo scontro era inevitabile. Era in gioco la stessa sopravvivenza della banda. Si decise allora di organizzare un’azione sensazionale contro la fazione liberale del paese e contro l’amministrazione comunale che avrebbe dovuto lasciare una traccia indelebile di sangue e di terrore in tutta la provincia.
LUIGI CERINO E LA SUA BANDA
Il 10 agosto il Capobanda ritornò sui monti di Gauro per preparare il blitz a Montecorvino Rovella. La “comitiva”alla vigilia della sua più grande “impresa” che l’avrebbe consegnata alla storia dei vinti, era formata da circa 25 briganti, esperti e audaci. Oltre al Capobanda Luigi Cerino e a Ciccio Cianci, vi facevano parte Ferdinando Pica di Montella, 25 anni, bracciante, Andrea Ferrigno, 28 anni, bracciante, già della banda Manzo, di Acerno, Liberato Boffa di Campagna 22 anni, capraio, già gregario della banda Giardullo, che di lì a poco avrebbero formato proprie autonome bande. Nicola Vassallo di Ciriaco, 26 anni, disertore, era uno dei luogotenenti di Cerino, nato nella frazione Votraci di Montecorvino, già brigante della banda Manzo, si rifugiava spesso nelle masserie dei fratelli di Pasquale Budetta, deputato al Parlamento e Consigliere Provinciale, dal quale era protetto. Il 15 ottobre del 1866 sequestrò ed uccise Leonardo Morretta di Montecorvino con quattro colpi di revolver. Fu catturato in località Pianella a Montecorvino in casa di un certo Nicolino Fortunato. Filippo Procida, di anni 21, di Felice, l’ultimo arrivato, della frazione Vignale di San Cipriano Picentino, ferito e catturato in uno scontro a fuoco tra la guardia nazionale di Pugliano e la banda Cerino. Gli altri componenti erano: Vincenzo Panico, Luigi Iannuzzi, Donatantonio Palumbo, pastore, 24 anni, Giovanni Frasca, pastore, di 32 anni, e Francesco Napolitano, pastore, 21 anni, di Acerno; Vito Di Martino, di 21 anni, contadino, evaso dal bagno di Nisida e Donato Pauciello di 21 anni pastore e Generoso Calabrese di 17 anni, contadino di Giffoni Valle Piana; Giovanni e Vito Sarno e Pietro Lo Mazzo di Volturara; Diego e Angelo Del Giudice, Lorenzo Gasparre; Carmine Meola ,pastore, di 24 anni e Luigi Corrado di 23 anni capraio di Senerchia; Generoso Lanzetta e Geremia Lanzetta di Calvanico; Rosario Iannuzzi 25 anni di Altavilla Silentina, già gregario della banda Tranchella.. Nella banda Cerino c’erano anche cinque donne. La compagna di Cerino si chiamava Doniella.”Era una bella ragazza robusta, di circa diciannove anni. Aveva un bel corpo e bei lineamenti, un bel sorriso e denti smaglianti. Sia lei che il suo uomo erano golosissimi e cercavano sempre di prendere doppie razioni, cosa che era molto mal vista”.
LA STRAGE DI MONTECORVINO ROVELLA
11 Agosto 1866
Una strage senza precedenti nel Principato Citeriore. E’la sera dell’11 agosto 1866. Sono circa le ore 20.00. A Montecorvino Rovella i lavoratori dei campi dopo una dura giornata di lavoro, sono rincasati da qualche ora e già dormono un sonno profondo. Il Capobanda è stato avvertito che i Carabinieri di Montecorvino reduci da una lunga perlustrazione stanno dormendo, mentre un quarto d’ora prima sono partiti da Montecorvino i Carabinieri di Giffoni. In paese era rimasta la Guardia Nazionale e un drappello di Guardie Mobili su cui lo stesso Delegato Vecchio “non riponeva nessuna fiducia”. Il silenzio è spezzato soltanto dal suono dei passi di qualche passante e dalle voci di un gruppo di persone sedute tranquille davanti alla farmacia Del Leone in via Clelia (oggi spiazzo Consalvi) che si godono la frescura della sera appena illuminata da un lampione a muro, collocato sulla facciata di casa Maiorini. C’è chi fuma la pipa, chi il sigaro, chi attende la chiusura della farmacia che all’epoca erano come dei circoli ricreativi. Riconosciamo il sindaco di Montecorvino e titolare della farmacia, Gaetano Maratea di Giuseppe e di Stella Di Chiaro, di anni 47, in carica dal 15 maggio 1864. Con lui, Domenico Gubitosi, possidente, 48 anni, di Sabato e di Maria Rosa Russomando, il possidente Don Nicola Budetta di Agostino e di Maria Teresa Pico di anni 74. I primi due erano vecchi patrioti e settari già durante i moti del 1848. Cerino arriva al calar della sera con la solita audacia e il solito gusto per la teatralità e le apparizioni improvvise. Si sentono dei passi provenienti dal vicolo Gemma, che sbuca sulla piazzetta del paese. Un uomo vestito di abiti scuri, un lungo mantello e la doppietta in braccio accelera l’andatura, appare in via Clelia ed è questo punto che il sindaco lo riconosce: “E’ Cerino, è Cerino!”, gridò. Quel nome è sinonimo di terrore e di morte. Sulla testa di questo “sanguinario capobanda” e su quella di Cianci pende una taglia di 12.000 franchi. Alla vista del brigante e di altri cinque o sei persone armate di tutto punto che lo seguono, tutti si alzarono e corsero via, il sindaco tenta invano di rinchiudersi alla spalle la grande porta della farmacia quando fu raggiunto da una scarica di pallottole. I briganti furiosi irrompono nella farmacia e uccidono anche Domenico Gubitosi. Don Nicola Budetta tenta un disperato tentativo di resistenza ma viene sopraffatto. Ci sono altri spari, altre grida, poi tutto è finito. I due ragazzi, Carlo Federico Budetta e Ferdinando Budetta presi in ostaggio, furono rilasciati durante la fuga per via Castello, verso la località “Fontanella”. Cerino aveva preso in ostaggio anche Don Nicola Budetta. Si avviarono lungo la “tempa del Battaglione” lungo la strada che conduceva a Montecorvino Pugliano e in località “Tempa degli Impisi” nelle vicinanze della frazione Nuvola, il Budetta fu fatto distendere, faccia a terra, afferrato per i capelli e ucciso in modo atroce. Il Sindaco Gaetano Maratea raccolto agonizzante morì il giorno dopo, alle ore 16,00, nella sua casa, senza aver mai ripreso conoscenza. Fu sepolto nella Chiesa dei Capuccini-S.Maria degli Angeli. (Dai registri degli atti di morte relativi all’anno 1866 conservati negli archivi del Comune di Montecorvino Rovella e da F.Serfilippo, opera citata). Lo choc è enorme. Quando a Cerino gli taglieranno la testa laggiù a Ruvo del Monte scriveranno che “ha pagato il fio di Montecorvino”.
11 novembre 2011 Bibliografia
Su Bronte: Benedetto Radice “Memorie storiche di Bronte”
Giovanni Verga, Libertà, Novelle Mursia ,1988
Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione
Franco Molfese Storia del brigantaggio dopo l’Unità Feltrinelli
Antonio Pizzolorusso I MARTIRI Per la libertà italiana della provincia di Salerno Ripostes
Archivio di Stato di Salerno,Gabinetto Prefettura
Archivio Comunale di Montecorvino Rovella
T.Pedio,Reazione alla politica piemontese ed origine del brigantaggio in Basilicata,Lavello,1961
F. Serfilippo, Ricerche sull’origine di Montecorvino
Lorenzo Del Boca “Maledetti Savoia”,ed.Piemme,1958
Mattia Calabritto, In memoria di mio padre Fruscione
Johann Jakob Lichtensteiger Quattro mesi fra i briganti 1865/66 a cura di Ugo Di Pace Avagliano&ditore.
Testimonianza della Contessa Bianca Budetta, nipote del Conte Carlo Federico Budetta, presente alla strage e resa allo storico Nunzio Di Rienzo.
B.N.46 Fasc 10- Confessione resa al delegato di pubblica sicurezza di Montecorvino Rovella dal brigante Filippo Procida di S.Cipriano, appartenente alla banda Cerino e Cianci, recluso nel carcere di Giffoni Valle Piana, sugli spostamenti, i ricoveri ed i manutengoli di detta banda (Prefettura Gabinetto-1866)
William Moens, Briganti italiani e Viaggiatori Inglesi, a cura di Madeline Merlini,Tea Storica.
B.47-Fasc 32 Tentativi per far costituire alcuni briganti, tra cui il capobanda Cerino,tramite l’intervento dei suoi familiari (1866)
ASS-B.47.Fasc79 Scontro a fuoco tra la guardia nazionale di Pugliano e la banda Cerino con ferimento e successiva cattura del brigante Filippo Procida. Imboscata tesa dalla stessa banda alla carrozza giornaliera di Montecorvino con omicidi di 2 persone e grave ferimento di altre 2. Richiesta di rinforzi per la lotta al brigantaggio da parte del sindaco di Pugliano.
Giuseppe OlIvieri Ricordi briganteschi. Storia che pare romanzo Avagliano Editore
De Jaco “Il brigantaggio meridionale”,Editori Riuniti, Roma,1969.
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