“Altri indizi urgentissimi di colpabilità così per Sebastiano De Cristofaro come pel figlio Salvatore e per Domenico Faino sorgevano dalle dichiarazioni di Nicola Mele di Mattia e di Fioravante D’Ascoli di Antonio di Giffoni, tant’è che indussero l’autorità di P.S. di arrestarli tutti e tre per denunziarli al potere giudiziario. A carico di Liborio Falconieri che ritrovasi coi briganti, di Rosario De Cristofaro altro figlio di Sebastiano, ora militare per servire tre mesi, e di Pasquale Faino da Montella gravi manifestazioni venivano fatte dal nominato Mele Nicola di Mattia, il quale disse che già da molti giorni prima del ricatto aveva sentito dire che i briganti bazzicavano sui Piani di Giffoni, e che egli aveva sospettato che erano in relazione col massaro De Cristofaro Sebastiano, essendo costui amico o compare del Manzi, vi aveva avuto quella relazione in occasione dei ricatti fatti dal Manzi del figlio del Sign.Elia Visconti di Giffoni, e del noto Inglese. Disse che si consolidarono i suoi sospetti allorquando seppe che il Liborio Falconieri, giovane colto e tristissimo, che con meraviglia di tutti erasi dato a fare il pastore, erasi allontanato dalla mandria del detto De Cristofaro suo padrone e la pubblica voce lo diceva unito ai briganti. Egli aggiunge che 20 giorni prima del ricatto aveva saputo da Salvatore De Cristofaro figlio del Sebastiano che il Liborio Falconieri aveva preso una ricotta prima di licenziarsi dalla mandria, e aveva parlato lungamente con Pasquale Faino da Montella, e si era incamminato alla volta di Acerno, invece di recarsi nelle Puglie siccome aveva lasciato credere. Il Mele allora ritenne che andava a unirsi coi briganti, e fece comprendere al Salvatore che se così era sarebbe rimasto compromesso suo padre Sebastiano; ma il Salvatore rispose che suo padre già era messo in regola coll’Autorità, il che era falso. Da ultimo il Mele dichiarava avergli detto il Salvatore De Cristofaro che prima d’avvenire il ricatto del Mancusi, Pasquale Faino si era allontanato dalla mandria per andare a cardolare, siccome annunziò, nei fondi di Gaetano Di Tore del Villaggio di S.Caterina.
Interrogato certo Fioravanti D’Ascoli di Antonio del Villaggio Vassi calzolaio, manifestò d’essersi imbattuto qualche tempo prima del ricatto con Sebastiano De Cristofaro, il quale armato e tutto frettoloso, dirigevasi alla volta della montagna. Richiesto del perché andava con tanta fretta, costui gli manifestò d’aver saputo che suo figlio Rosario e il Falconieri Liborio suo garzone erasi uniti colla banda capitanata dal Manzi; lo invitò ad accompagnarlo onde entrambi trovando il figlio cercassero di persuaderlo a smettere quel proponimento e presentarsi al militare servizio essendo stato chiamato sotto le armi. Arrivati alla mandria del Sebastiano sita sui Piani di Giffoni trovarono il Falconieri solo, il quale li assicurò che era vero che si erano allontanati, ma che però poteva stare di buon animo poiché il figlio Rosario erasi già presentato sotto le Armi, ed una persona di Acerno l’aveva accompagnato. Così fu detto alla presenza di esso D’Ascoli: poi il Falconieri parlò molto tempo in segreto col Sebastiano De Cristofaro, e non fu possibile sentire cosa dicessero. Dopo tal epoca il D’Ascoli vide per cinque giorni consecutivi il Falconieri discendere al Villaggio Vassi in compagnia di certo Giovanni Dipopolo di Vassi a comprare un rotolo di pasta ; poi non più lo vide, e seppe per pubblica voce che erasi dato a scorrere la campagna coi briganti. Seppe in seguito da certa Elena.Vassallo di Vassi che il Liborio Falconieri gli aveva detto che l’amante di lei Rosario De Cristofaro offertasi al brigante Manzi non era stata accettata per riguardi che egli aveva per il padre Sebastiano suo amico.
Per altre segrete indagini l’autorità di Pubblica Sicurezza venne a conoscere che la notte dal 27 al 28, Santolo Di Lorenzo servo di pena apposita per brigantaggio, della contrada Gaia, luogo pel quale i briganti passarono la sera del 27 giugno per recarsi a Giffoni, non si trovava in casa quella notte, e dopo si ebbero da confidenti rivelazioni che, così lui come il fratello Carmine avessero condotto i briganti per il Tuoppolo nell’abitato. Di tali due si è disposto già l’arresto.
Proseguendo le investigazioni s’ebbero rivelazioni che Preziosa Palma di Acerno druda del brigante Manzi, cuciva quattro camicie per detto brigante, ed anche essa fu subito tratta in arresto da quel Delegato di P.S. che prosegue le indagini per tutti i manutengoli di quel triste Comune- Fra i quali non è meno compromesso il Sign.Carmine Zottola proprietario di colà, sul conto di cui andranno a farsi minuziose indagini dall’Ispettore di P.S. su ordine anche del sullodato Sign.Prefetto di Salerno. Oltre i tre arrestati Sebastiano De Cristofaro, Salvatore suo figlio e Domenico Faino, ve ne sono nella Caserma dei Carabinieri ancora altri due, il Mele Nicola e certo Salvatore Caputo da Montella. Il Mele fu arrestato dalle autorità di P.S. per sospetti che subito svanirono, ed è stato ritenuto in carcere nella speranza che, dimesticatosi cogli altri arrestati avesse potuto da essi ottenere delle rivelazioni, ma sembra che non sia riuscito e quindi non vi è più motivo a ritenerlo. Intanto dietro una istanza della donna del ricattato Mancusi e del nipote Sign.Giovanni, dall’Ispettore di P.S. fu permesso che un messo andasse in cerca dei briganti per recare al ricattato abiti e altro di che potesse aver bisogno, ma il messo giunto nelle montagne in prossimità di Acerno, imbattevasi in un pastore di sua conoscenza a nome Raffaele…il quale lo assicurò che i briganti avevano preso la via del bosco Polveracchio e si erano gittati al versante da parte del Circondario di Campagna. Il messo trovandosi privo di foglio di via che l’autorizzasse, e vedendo in lontananza i militari di Acerno che andavano in perlustrazione, credette di non procedere oltre per tema di essere arrestato e ritornò per essere provveduto di un foglio di via in regola. E tal foglio dietro concerti presi con il Sign.Giovanni Mancusi fu rilasciato dal suddetto Sign.Ispettore così per il detto messo a nome Carmine Bonanno, che per un altro a nome D’Angelo Giuseppe, per soli quattro giorni a cominciare dal giorno otto, per cui oggi spira il termine senza che avessero quei due fatto ritorno o dato notizia di loro.
Son queste le operazioni compiute dall’Autorità di P.S. da che è giunta in questo Comune le quali se furono coronate da magri successi, non devosi ciò certo a mancanza d’attività e di solerti cure,ma alle immense difficoltà di tutti i generi, che presentano simili servizi, nei quali mal si oppone chi crede che possa riuscirci con mezzi ordinari.
Si fa d’uopo di misure severe ed eccezionali, di molta forza e di molti mezzi pecuniari, e di una mente unica che diriga. Solamente allora potranno sperarsi risultati di qualche entità.
Intanto l’Autorità di P.S. in missione a Giffoni proseguirà nella spinosa via, né sarà scoraggiata dall’immane lavoro e dalle difficoltà del suo compito”.
L’Ispettore di P.S. in Missione De Rogatis
Questo rapporto del 12 luglio 1872 inviato al Giudice Istruttore dall’Ispettore Maggiore Enrico De Rogatis è interessante ed illuminante per vari aspetti. Le Forze dell’Ordine dopo circa quindici giorni dal sequestro “brancolano nel buio”, si direbbe oggi , e non riescono a ritrovare le tracce della banda che in questo momento si trova nascosta sul monte Polveracchio. I primi arresti di complici e manutengoli a Giffoni Valle Piana incominciano a svelare alcuni retroscena del sequestro ma si procede con approssimazione, senza una strategia precisa, e con i soliti sistemi in uso in quel periodo dove le garanzie sono del tutto sospese e prevale in certi casi l’arbitrio della legge. Si tentano di corrompere foresi e pastori, si pagano informatori, si introducono spie nel carcere per carpire informazioni utili da altri detenuti, si pratica l’arresto e la “detenzione preventiva” per raccogliere indizi e prove. L’accenno critico del maggiore De Rogatis sulla mancanza di coordinamento, sulla necessità di maggiori fondi e di misure eccezionali dimostra che sul piano dell’efficienza tecnica ed organizzativa, “militare” direi, i diseredati contadini di Manzo hanno ottenuto un successo su tutta la linea evitando ogni tentativo di farsi agganciare dalla truppe e dalle guardie nazionali che tentano di stringere il cerchio intorno alla banda da Montecorvino, Acerno, Montella, Serino, Olevano sul Tusciano e Campagna. I dissidi tra le varie forze militari in campo, che sono aumentate in modo vistoso, frazionate in ogni zona e in ogni paese, in questa fase dove ancora l’apparato di repressione non è ancora ben collaudato, esploderanno di lì a poco con una violenta polemica interna che coinvolgerà i massimi gradi dell’esercito e direttamente il Ministro dell’Interno Cavallini. Motivo del contendere il “foglio di via” rilasciato ai messi del Mancusi per tentare di contattare la banda. La collaborazione dei maggiorenti di Giffoni è l’unico dato confortante per le autorità mentre la banda può ancora contare sulla benevola neutralità o l’aperta collaborazione degli strati più poveri della popolazione di Giffoni e del circondario che ha fornito aiuti, assistenza e rinforzi alla banda. Negli anni’70 malgrado il vento sia cambiato e il brigantaggio sta scrivendo gli ultimi cruenti episodi di un movimento in estinzione, le tre o quattro piccole bande che ancora sopravvivono nell’area dei picentini possono ancora fruire del sostegno dell’ambiente contadino e bracciantile. Il fenomeno del “manutengolismo” così diffuso durante il brigantaggio post-unitario nasceva dalla miseria e dalla fame e rappresentava l’unico mezzo per cambiare la propria vita di “dannati della terra” e combattere i soprusi, gli inganni, lo sfruttamento condividendo “la mortale avventura del brigantaggio”. E‘ interessante per inquadrare gli ultimi anni del brigantaggio riportare ciò che scrive il Molfese.” Contrariamente all’opinione dei pochi scrittori sul brigantaggio post-unitario che hanno trattato anche dei fatti svoltisi dopo il 1864, e che tutti indistintamente ne hanno considerato la fase finale affrettatamente e con superficialità, coinvolgendo il brigantaggio di quel periodo in un solo giudizio negativo che lo raffigura come una manifestazione di criminalità comune in continuo declino, l’esame del lungo periodo che va dalla sconfitta del grande brigantaggio fino alla fine ufficialmente riconosciuta del brigantaggio meridionale (1870), riserva non poche sorprese a chi voglia approfondire meglio le cose. Intanto, in quegli anni seguita ad essere evidente il carattere <policentrico> del brigantaggio, che persiste ostinato nell’Abruzzo chietino, nell’Abruzzo aquilano e in Terra di Lavoro, nel Salernitano, nel Lagonegrese,e infine in Calabria, senza collegamenti apprezzabili tra le varie aree. In questi diversi centri il brigantaggio conserva ancora a lungo la virulenza dei primi anni e specialmente in Abruzzo e in Terra di Lavoro si può parlare di un grosso brigantaggio, condotto, cioè, da molte bande formate di numerosi elementi che non si limitano a praticare soltanto i ricatti e le distruzioni di proprietà a danno della borghesia agraria, ma affrontano incessantemente le forze repressive. Nelle regioniche ufficialmente si considerano <pacificate> (Puglia, Molise, Beneventano, Basilicata, Irpinia), la sicurezza pubblica nelle campagne e lungo le vie di comunicazione lascia sempre a desiderare. Riappaiono continuamente piccole bande a compiere rapine e ricatti. Il fuoco sembra covare sotto le ceneri”. Interessanti risultano anche le annotazioni sul “nuovo, dinamico metodo della <persecuzione incessante> inaugurato dal generale Pallavicini nel Beneventano che come abbiamo ricordato era stato designato, dopo la defenestrazione del Conte di San Elena, per distruggere la banda Manzo installando il suo quartier generale nel comune di Montecorvino Rovella. “Pallavicini ricercava sempre la chiave del successo oltre che nell’azione militare, in due altri fattori: la collaborazione delle municipalità e delle guardie nazionali (che gli altri comandanti militari difficilmente sollecitavano o sapevano guadagnarsi), e la persecuzione dei manutengoli condotta con ogni espediente,anche a rischio di provocare conflitti con l’autorità giudiziaria. Questo metodo era divenuto sempre più efficace quanto più era andata crescendo la forza delle autorità statali con il conseguente isolamento dei briganti”.
Nel rapporto del De Rogatis si accenna, en passant, a un certo Gaetano Di Tore del villaggio di S.Caterina. Il figlio Alfonso Di Tore di anni 36, di S.Caterina venne catturato insieme ad Alfonso Russo il 31 agosto 1867 in contrada Canaloni a due chilometri da Montecorvino Rovella da “quattro malfattori, che dalle indagini risultò che sarebbero gente di Montella , sprovvisti di abiti, male armati”. Il Prefetto di Salerno ordina di prendere provvedimenti energici e di distruggerli, mettendosi immediatamente d’accordo con le autorità della provincia di Avellino. La squadriglia mobile del tenente Lorenzo Pettinati in perlustrazione a Sieti telegrafa al Prefetto di Salerno:” La sera del 31 agosto 1867 4 sconosciuti ,uno dei quali armato di scure, ricattarono in tenimento di Montecorvino, Alfonso Russo e Alfonso Di Tore che custodivano le loro vacche. Arrivati ad un certo punto congedarono il primo, conducendo seco l’altro, al quale riuscì fuggire il giorno appresso mentre i malfattori dormivano. Egli ha dichiarato che ai quattro malfattori si erano uniti altri 3 armati di fucile; e che fu trattenuto alla contrada Serralonga in tenimento di Montella donde fuggi”.