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Registrazione Trib. di Sa n°22 del 07.05.2004
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Alcune riflessioni sul voto regionale

Le elezioni regionali in Campania hanno fornito alcuni dati incontrovertibili: su tutti la sconfitta del centro-sinistra, undici punti di distacco sono tantissimi, e il crescente astensionismo –quasi 2 milioni di elettori rispetto alle europee del 2009 non sono andati a votare. I numeri segnalano la crescita del “partito” dell’astensionismo che colpisce tutti, ma in misura maggiore rispetto al passato anche il centro-sinistra, come dimostra il caso dei picentini (migliaia di elettori si sono astenuti dal voto determinando la mancata rielezione di Ugo Carpinelli). Un fenomeno che non può essere banalmente assimilato a un deleterio qualunquismo da criminalizzare ma che invece merita rispetto perché esprime un silenzio eloquente, un forte disagio frutto di una diffusa disillusione e demoralizzazione di ampi settori di cittadinanza tradizionalmente legata ai partiti del centro-sinistra e che trova giustificazione nei limiti dei “gruppi dirigenti” locali, sradicati dai territori, incapaci di intercettare il disagio sociale, di parlare al cuore e alla pancia della gente.

Il centrosinistra esce sconfitto da queste elezioni perché la pesante eredità e i disastri della gestione bassoliniana del potere erano impressi non solo nel piombo dei giornali ma nella coscienza e negli occhi della gente. Perde perché malgrado l’affermazione personale a Salerno e provincia di Vincenzo De Luca, il Partito Democratico è un partito inconsistente, né di lotta né di governo, non offre soluzioni ai bisogni sociali, non riesce ad essere presente ed a interpretare ciò che accade realmente nella società, nelle fabbriche, nelle scuole, nelle campagne, e a dare valori, idee e prospettive nuove. Il centrosinistra continua a perdere perché il centrodestra a differenza di un recente passato, si presenta con il volto più dignitoso di un nuovo ceto politico, con un apparato e una organizzazione che funziona come funzionava una volta la macchina organizzativa del vecchio Pci, e con quello più efficace di decine di amministratori locali sempre più radicati nel territorio. Il Pd salernitano tranne lodevoli eccezioni, non riesce a sperimentare forme (e linguaggi) nuovi, a produrre iniziative politiche importanti sui temi del lavoro e del sociale e si presenta ancora con il volto di un ceto politico con scarsi legami con i territori e con il grigiore tipico dei burocrati di partito, con un peso teorico e un seguito irrilevanti. Questo della crisi del Pd e del suo rapporto con i cittadini è uno degli elementi centrali su cui riflettere se si vuole ricostruire una credibilità ed autorevolezza perduta. Il Pd perde dopo l’Ente provincia, ad Angri, Cava de Tirreni, Castel San Giorgio e persino nella zona del picentino è ridotto a mera testimonianza.

Ci sono aree a sud di Salerno dove il Pd non è mai nato. Non serve arrampicarsi sugli specchi con calcoli di percentuali infinitesimali, come degli strateghi da farmacia, per sostenere che il Pd Salerno ha ottenuto un risultato buono. Se il risultato del Pd è accettabile, lo si deve in massima parte all’immagine di amministratore di De Luca e al peso elettorale di alcuni candidati della lista Pd, qualcuno dei quali è stato lasciato solo, abbandonato a se stesso. Se non ci fosse stato De Luca, la sconfitta elettorale avrebbe assunto i toni della disfatta. Questa è la verità. Circa quindicimila elettori soltanto a Salerno hanno votato solo De Luca e nessun altro candidato. l1 “Salernocentrismo” del gruppo dirigente è un altro problema su cui riflettere: così come è strutturato il Pd è l’organo di una frazione, una scatola vuota, una sorta di circolo ricreativo cittadino che gode unicamente della fiducia del “capo” e che secondo indiscrezioni in queste elezioni è stato al “servizio” esclusivo dei candidati di Salerno città. Il Pd è in agonia, un’agonia lenta e inarrestabile che lo condurrà inevitabilmente alla morte, se al suo capezzale non accorreranno medici illuminati. Occorre un rinnovamento radicale della classe dirigente che sia in “connessione politica e sentimentale” con gli strati più esposti alla crisi economica e sociale che si sentono abbandonati e reagiscono all’isolamento con l’opzione del silenzio consapevole e l’astensionismo di massa.

Tutti sanno chi è Vincenzo De Luca, il suo pensiero in politica, tutti conoscono il suo carisma, il suo decisionismo, i suoi metodi di governo, la sua operosità. Tutti sanno ciò che ha fatto per Salerno e quello che avrebbe potuto fare per la Regione Campania. L’uomo è tra i più capaci, era l’unico in grado di contenere il vento di centro destra che spira ancora forte, uno dei pochi in grado di tentare di imporre a Napoli una regola morale a tutti, di intercettare consensi trasversali. L’avventura è finita già prima di cominciare con una candidatura partorita in forte ritardo e fra troppi distinguo. Sconfitta inevitabile e prevista. Alla fine hanno vinto quegli elettori soprattutto napoletani che calcolando i pro e i contro hanno deciso che forse era meglio cambiare tutto per non cambiare niente. Vincenzo De Luca è una realtà straordinaria, non una realtà eterna e permanente. Oltre e dietro De Luca, il Partito Democratico ha pochissime personalità in grado di farlo rinascere, di assicurare valori e sensibilità nuove, di dialogare con i territori, non solo a ridosso delle campagne elettorali. C’è sicuramente molto da fare per recuperare il terreno perduto e l’enorme distanza che separa i cittadini dai partiti. Dice bene Alfonso Andria, quando sostiene che bisogna recuperare lo “spirito originario” per cui il Pd è nato se non vuole restare un partito autorefenziale.

Walter Brancaccio

 
 
 
 
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