“ L’aristocrazia delle mani. Storie di artigiani e di mondi”
Ho appena finito di leggere l’ultima “fatica letteraria” di Enzo Landolfi e Antonietta Piscione “L’aristocrazia delle mani, storie di artigiani e di mondi”, printarartEdizioni, €10,00. Landolfi è un popolare giornalista salernitano precursore sul video del filone enogastronomico prima che entrassero in campo nel pletorico microcosmo delle emittenti locali troppi epigoni, che hanno oltre la faccia di bronzo il grande limite di voler apparire diversi da quello che si è realmente. I format TV di Landolfi girati in questa magnifica e variegata provincia salernitana, spesso in compagnia dell’ottimo Antonio Vacca, hanno sempre incontrato il mio favore e l’alto indice di gradimento di un pubblico nazional-popolare. L’approccio sempre spontaneo e trasparente, intercalato dal dialetto, con le radici nell’antica Volcei, verso il popolo, scevro nei limiti del possibile dal rituale pellegrinaggio da un sindaco all’altro, da un’istituzione all’altra, mi è sempre piaciuto perché avvertivo la genuinità di uno a cui le castagne piacciono veramente. Ha camminato tutta la provincia Landolfi, in lungo e in largo, e la conosce come pochi. Soprattutto conosce e scopre nuovi artisti e personaggi dei paesini del Cilento e del Diano, dell’agro e della costiera, del picentino e degli alburni, conosce il piccolo artigiano che campa la vita nei piccoli borghi isolati dal mondo e il grande artigianato di qualità inserito nel business che crea cose magnifiche nei centri urbani più moderni, in quattro metri di stanza al riparo dalla civiltà industriale, come fortilizi a guardia del bello. Tutto questo mondo, scrutato a fondo sul campo, tutte queste storie, in parte sommerse e perdute, ci sono accuratamente descritte e restituite con un animo talvolta di sacrale entusiasmo nelle 263 pagine di un libro che è anche un impegno civile e morale perché questo mondo in via d’estinzione venga protetto e aiutato da chi di dovere. Sono tantissimi i ritratti di artigiani e delle loro famiglie che irrompono dalle pagine con il loro passato e presente, tra modernità e tradizione; personaggi noti e sconosciuti, storie di una categoria che resiste alla crisi e alla standardizzazione di massa sventolando con orgoglio l’antico mestiere tramandato da generazioni. Si resta ammirati ammirando con emozione la galleria impressionante delle esperienze lavorative raccontate: come si fa un abito da sposa, un capello, una sedia di paglia, come si lavora un vetro, il rame, l’argilla, come si ripara un orologio o si fa il “mitico” amaro Perna, che però non conosce quasi nessuno. Landolfi racconta e celebra, probabilmente in modo conclusivo, questo mondo con un sentore di nostalgia che sembra già un ricordo, ma non è ancora storia. L’uomo che si affanna a costruire fucili o chitarre battenti andrebbe premiato, gli andrebbe innalzato un “monumento” o intitolato almeno un vicolo per il solo fatto di esistere ancora, di tenere vive tradizioni millenarie e un diverso tipo di civiltà e di cultura. Il lungo viaggio appassionato come tutte le cose landolfiane ci conduce nel potere dell’aristocrazia delle mani, lasciandoci talvolta di stucco ed emozionati nell’escalation dei tipi e delle creazioni con un retrogusto amaro di una battaglia forse già perduta. Si chiede retoricamente Enzo Landolfi a pag.55: “ C’è bisogno di dire che una tradizione non va lasciata morire? C’è bisogno di dire che le botteghe artigiane vanno sostenute e promosse in ogni modo? C’è bisogno di dire che l’Università potrebbe farsi partner dell’artigianato perché l’artigianato è cultura, etnologia, arte, scienza, storia e chi più ne ha più ne metta? C’è bisogno di dire tutto ciò? No che non ce n’è bisogno. E allora perché continuiamo a ripeterlo da anni”?
Già perche?
Walter Brancaccio |