Dai pesci fossili di 200 milioni di anni fa all’unguento ittiolo
di Walter Brancaccio.
Pesci del Triassico superiore sulla montagna, imprigionati nelle rocce del monte Pettine e della Valle del Cerasuolo, residui di epoche geologiche ormai scomparse, e cunicoli scavati nella roccia durissima per estrarre gli scisti bituminosi, una classe di carboni fossili da cui si ricavava l’ittiolo. C’è stato un tempo in cui, poco più di 200 milioni di anni fa, la dorsale dei monti Licinici nel versante sud- meridionale dei Monti Picentini era in prossimità di acque marine prossime alla costa, dove pesci (e piante) vivevano vicino ad un’antica barriera corallina, che separava questi monti dal mare aperto. C’è stato un tempo in cui, anche il salernitano è una sorta di “Triassic Park” dove vivevano rettili, anfibi e pesci improvvisamente estinti lungo “il vicolo cieco” dell’evoluzione, come lo chiama Darwin. Ma i resti fossili sono ancora qui, in questo angolo (dimenticato) dagli itinerari turistici omologati, ritrovati per caso, già nel 1815, dal Cavaliere Filippo Bassi, che li portò in omaggio a Re Ferdinando I. Circa cento esemplari si possono oggi ammirare nella sala O.G.Costa del Museo di Paleontologia dell’Università “Federico II” di Napoli costituendo, insieme ai giacimenti fossili di Pietraroia e Castellamare di Stabia, una Collezione Speciale di altissimo valore scientifico che ha permesso di trarre importanti indicazioni sulla storia geologica della Campania. Un vero e proprio giacimento ittiolitifero venne, infatti, localizzato in seguito a studi e ricerche scientifiche promosse dal governo Borbonico e finalizzate alla ricerca dei combustibili fossili contenuti negli scisti bituminosi della valle del Pettine, del Mandidrauro, del Cerasuolo. Diversi scienziati eseguirono ricerche in queste zone sempre allo scopo di verificarne le potenzialità economiche e produttive. Andrea Savaresi eseguì una prima ricognizione sul monte Pettine per verificarne l’estensione, poi fu la volta, nel 1809, di Giuseppe Melograni che passò il testimone, nel 1815, a De Giovanni che vi scavò due cunicoli, uno dei quali raggiunse i 16 metri di profondità. Le ricerche tuttavia non approdarono a nessun risultato degno di rilievo tanto che nel 1820 Matteo Tondi incaricato dall’Accademia delle Scienze di Napoli giunse alla conclusione che i minerali presenti in zona non offrivano nessun vantaggio industriale. Le ricerche di carbon fossile furono perciò abbandonate e la zona già marginale e disabitata ripiombò nel più completo anonimato. Fino a quando entrò in scena l’insigne zoologo e naturalista Oronzio Gabriele Costa (Alessano 1787-Napoli 1867) giunto a Giffoni Valle Piana nel gennaio del 1858, che studiò a fondo tutta l’area, allo scopo di constatare l’esistenza del litantrace. Lo scienziato soggiornò per circa due anni in un rifugio chiamato il “Casone”, non trovò il litantrace, ma fece degli eccezionali ritrovamenti paleontologici ed ebbe il grande merito di far conoscere alla comunità scientifica italiana ed internazionale i nostri magnifici pesci fossili del triassico emersi dagli scisti bituminosi della valle del Cerasuolo. Una terra emersa popolata da una moltitudine di predatori dai denti robusti adatti a triturare i gusci di molluschi bivalvi. Il Costa raccolse e catalogò centinaia di pesci fossili, tra cui anche specie rare, alle quali sono stati attribuiti nomi sfolgoranti come il Paralepidotus ornatus, un semionide molto comune nelle località del Norico, il Sargodon tomicus, i Saurichthys, predatori del triassico che superavano il metro di lunghezza, simili al luccio e pesci volanti del genere thoracopterus e l’Urocomus picentinus descritto dallo stesso Costa. Poi pubblicò a sue spese i risultati delle sistematiche osservazioni geologiche e paleontologiche condotte sul campo in decenni d'intenso studio del territorio del Regno. Due di queste opere, Paleontologia del Regno di Napoli e Fauna del Regno di Napoli rappresentano ancora oggi una delle vette più alte mai raggiunte nel campo degli studi naturalistici in Italia. Ma la vera storia della miniera di ittiolo di Giffoni comincia con Maria Bakunin, (Krasnojarsk 1873- Napoli 1960) la terzogenita figlia del rivoluzionario e filosofo russo Michail Bakunin , che tra il 1910 e il 1920 soggiornò a Giffoni Valle Piana, insieme al professore Francesco Giordano, prestando numerose consulenze all’amministrazione comunale di Giffoni Valle Piana. Maria Bakunin, Marussia per gli amici, professore emerito di chimica presso l’Università degli studi di Napoli, si dedicò alla definizione della mappa geologica d’Italia, studiando in particolare le rocce metamorfiche impregnate di ittiolo, che caratterizzano anche le montagne dei Picentini nell’area salernitana. Figura straordinaria e singolare di donna e scienziato, la Bakunin ci conduce alla riscoperta dei primordi dell’industria del petrolio, con i primissimi lavori di scandaglio sugli scisti bituminosi e ittiliolitici dei Monti Picentini. La Bakunin come rivela il professore Vittorio Dini nella prefazione al saggio di Pasqualina Mongillo “Marussia Bakunin, una donna nella storia della chimica, Rubbettino, 2008 ”, eseguì le prime estrazioni e approfondì la preparazione chimica di quella che definì la “pietra nera foriera di fuoco e di energia”, lavorando per alcuni anni come consulente del comune di Giffoni Valle Piana per la produzione dell’ittiolo ricavato dai giacimenti di scisti, paragonandoli a quelli di Besano e Meride e identici a quelli del Tirolo a Seefeld. Nel 1906 due genius loci il Cav. Gaetano Visconti e Alfonso D’Angelo, incoraggiati dalla Bakunin, accarezzarono l’idea di sfruttare le miniere ed ottennero i primi permessi dal comune di Giffoni per analizzare il minerale. Fu costituita a Napoli il 9 novembre del 1912 la società Visconti-D’Angelo& C. che affidò all’ing. Ettore Lanzinger la costruzione di un forno, di forma cilindrica, capace di contenere 3 quintali di scisti bituminosi letteralmente arrostiti ad una temperatura variabile tra i 100° e 255c, con riscaldamento a legna. Costruito dalla società Bamag di Stettino, il forno entrò quasi subito in funzione con ottime distillazioni. Dai limbicchi fuoriesce il primo olio, raccolto in apposite vasche, mentre i gas oleosi sidistillarono per “ascensum”, ovvero il prodotto volatile usciva dalla parte superiore. Un forno, un’officina di frantumazione, un impianto di condensazione e un gassometro costituiscono tutto l’opificio. Una concessione trentennale fu rilasciata dal Comune che riceveva in cambio un corrispettivo di L.2 per ogni tonnellata di minerale distillabile. I complessi processi chimici di distillazione dell’ittiolo furono eseguiti dapprima dalla Bakunin e in seguito dall’Ing.Paolo Chomè, già direttore degli altiforni dell’Ilva. La miniera che iniziò la produzione all’inizio del 900, fece largo uso del lavoro femminile e minorile quasi tutto proveniente dalle vicine frazioni di Curti e Curticelle. Si lavora quasi tutto l’anno, di giorno e di notte. Si scava con pali di ferro e piccozze, si frantumano gli scisti, che si presentano stratificati e che venivano trasportati agevolmente a valle sui carrelli di una teleferica (qualche pezzo arrugginito è ancora visibile), e si procedeva alla distillazione sul posto. A ridosso della miniera si sviluppò un villaggio, uno spaccio e una scuola elementare, per soddisfare le esigenze dei figli dei minatori. Tuttavia i lavori di scavo procedevano lenti, con arcaici sistemi di perforazione della roccia mediante l’impiego di polvere pirica, il primo esplosivo utilizzato nella storia umana, e di due minatori, uno che regge e ruota lo stampo ad ogni colpo e l’altro che con la mazza batte la coda dello stampo; ad un certo punto mancarono perfino i minatori; la scarsità di capitali infine portarono alla liquidazione della società Visconti e D’Angelo che fu ceduta (luglio 1917) alla “Società Industrie Chimiche Ittiolo” per 200 mila lire fondata da tale Roberto de Sanna di Napoli. La nuova direzione tecnica dei lavori fu assunta da Francesco Giordani, (coadiuvato da Francesco Tesauro) direttore della Cattedra di Elettrochimica della Regia Università di Napoli che impiantò anche una linea elettrica e telefonica lunga 6 Km. La produzione dell’ittiolo proseguì fino al termine della seconda guerra mondiale, poi il crollo sia per gli alti costi di produzione e gli scarsi profitti sia per la scoperta dei nuovi ritrovati farmaceutici. L’evento che scrisse la parola fine alla vita della miniera, si chiama probabilmente mercurio cromo.
La Miniera di Ittiolo di Giffoni Valle Piana
Come arrivarci
Non è per nulla facile per chi non conosce bene i luoghi arrivare alla zona scisto-bituminosa e ai ruderi della vecchia fabbrica per l’estrazione dell’ittiolo. Un mondo lontano dai centri abitati, una trentina di chilometri da Salerno, che affida immagini e memorie a gallerie che si inoltrano nella montagna e a numerosi reperti di archeologia industriale. Le vie di accesso passano tutte per la cittadina di Giffoni Valle Piana, tranne per chi arriva dal versante avellinese. Non esistono lungo la strada indicazioni segnaletiche né parcheggi per auto o autobus. Le carte topografiche e dei sentieri sono introvabili o appannaggio di pochi eletti. Forse è meglio non leggere l’unica edicola “informativa”. Come scriveva un secolo fa, un grande meridionalista, Giustino Fortunato: “Per conoscere bisogna camminare”. Non sono disponibili guide turistiche, (tranne Virgilio De Mattia, che ci fatto gentilmente da guida, l’unica figura qualificata capace di accompagnare lungo i sentieri i visitatori interessati, illustrando anche le caratteristiche ambientali dei luoghi attraversati); l’area della miniera è invisibile dalla strada finchè non ci si affaccia da un piccolo spiazzale. La sagoma deformata di quest’antico opificio industriale si trova appartata in una gola, a quota 760 m, vera meraviglia d’ingegno ai piedi del monte Pettine, a circa 5 km dalla frazione Curti, lungo la strada provinciale che collega il comune di Giffoni Valle Piana al comune di Serino. Il silenzio (profondo) avvolge ogni cosa, il tempo sembra essersi fermato. La vista di questo antico opificio industriale produce sensibili emozioni, si sente l’atmosfera pionieristica, la durezza della vita, si avverte l’alito della storia. Su questo raro monumento di archeologia industriale, per moltissimi anni, è calato il triste sipario del silenzio. Il Comune di Giffoni Valle Piana ha recentemente recuperato il rifugio montano “il Casone”, dove soggiornò il Costa, trasformandolo in museo, tassello di un progetto ambizioso che mira a realizzare un Parco geo-paleontologico e minerario, unico nel suo genere in provincia di Salerno. Il Casone situato poco a monte dell’opificio, a quota 995 s.l.m., è facilmente raggiungibile seguendo le indicazioni presenti su tutto il percorso, da qui si riparte, dopo aver tirato il fiato nell’area attrezzata, verso la “strada delle miniere”, lungo un sentiero impervio ma di grande fascino, fino a raggiungere il varco del Patanaro o la Valle del Cerasuolo, in una contesto originale a stretto contatto con una natura ancora incontaminata. Il “Casone” è situato poco a monte dell’opificio, struttura aperta al pubblico, due stanze spartane decorate con vecchie foto di scienziati e naturalisti, centro di raccolta iconografica e di documentazione che immergono il visitatore nella storia, ancora da scrivere, affascinante delle miniere e dei sistemi di lavorazione e produzione dell’ittiolo. Sarebbe importante che questa struttura fosse in grado di diventare un vero e proprio polo di attrazione culturale, promuovendo attività culturali e scientifiche, dove si potrà leggere, studiare, e documentarsi sulla paleontologia e sulla geologia, organizzare visite guidate, mostre, incontri culturali e vedere,perché no, i nostri magnifici pesci del triassico. L’obiettivo è di riuscire a trasformare le miniere dismesse in una risorsa per il turismo. Turismo rigorosamente montano che punta alla valorizzazione delle risorse naturalistiche ed escursionistiche, ai valori culturali, storici dei luoghi. Ma il cui destino appare sempre più legato al fattore umano, alle capacità della comunità di vivere con la propria memoria e con i luoghi che hanno segnato secoli di storia e di cultura del territorio, un rapporto di rispetto. Ogni tanto, purtroppo, ci segnalano cose orribili da vedere come quella micro-discarica nei pressi della fabbrica e le rocce e gli alberi “segnalati” qui e là di bianco e rosso, irrispettosi del paesaggio. (W.B.)
Numeri utili:
Municipio di Giffoni Valle Piana 089 9828711
Per le escursioni guidate (solo su prenotazione): Virgilio De Mattia, Presidente dell’Associazione Nazionale Carabinieri, sezione di Giffoni. Cell: 3395754208
L’Ittiolo
Molto usato fino agli anni ‘60, l’ittiolo o ictammolo , è un rimedio d’altri tempi, economico e molto efficace. E’ un prodotto ancora avvolto in un alone di mistero e non troppo conosciuto. E’ un unguento di origine naturale ottenuto dalla distillazione di scisti bituminosi ricchi di resti di pesci e di altri animali marini fossili. Viene utilizzato con ottimi risultati per medicare piccole infezioni cutanee: foruncolosi, ascessi, ulcerazioni superficiali della cute e delle mucose. Ha un’azione antisettica, cicatrizzante, antiirritante. E’un liquido molto denso, di colore marrone scuro tendente al nero, dall’odore sgradevole. Il principio attivo è l’ammonio solfoittiolato.Viene venduto a soli 3,00 euro come unguento in tubetto da 30 gr, in concentrazione del 10% o 20%, come farmaco da banco, senza presentazione di ricetta medica. Si dimostra particolarmente efficace per le sue qualità risolventi, antinfiammatorie ed antibatteriche. Il “boom” dell’ittiolo si ebbe durante la prima e la seconda guerra mondiale, quando veniva utilizzato per curare le ferite infette dei soldati. Come dimostrano recenti studi scientifici le materie prime di origine naturale di antica tradizione, stanno registrando una “riscoperta” in campo dermocosmetico.Tra queste l’ittiolo, estratto dalle miniere, privo di effetti collaterali. La sua azione dermatologica venne scoperta dal fisico australiano Paul Gerson Unna.
Maggio 2009 - VIETATA LA RIPRODUZIONE. |