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Registrazione Trib. di Sa n°22 del 07.05.2004
 
 
 
 
 
 
 
 
 

La Traviata inaugura la stagione lirica del TeatroVerdi di Salerno - Presentazione del Sindaco Vincenzo De Luca

Presentiamo, con orgoglio e compiacimento, la stagione lirica, sinfonica e di balletto del Teatro Municipale Giuseppe Verdi di Salerno. Ancora una volta il nostro direttore Daniel Oren è riuscito a stupirci allestendo un programma di altissima qualità culturale ed artistica. La collaborazione con il Maestro sta dando frutti fecondi con un crescente successo di pubblico e di critica. Anche per il 2012 sarà così in virtù di un eccellente mix tra opere di grande repertorio amatissime ed opere altrettanto importanti che gli spettatori impareranno a conoscere ed apprezzare. In questa sintesi c’è il senso profondo di una missione culturale e civile che il Comune di Salerno ha intrapreso e tenacemente porta avanti. Riteniamo che la musica, il belcanto, la danza siano un grande patrimonio dell’Italia che il Mondo intero c’invidia. Li riteniamo tasselli perfetti del grande programma di trasformazione consapevole che stiamo svolgendo nella nostra comunità e che ci ha permesso di raggiungere tanti primati dall’urbanistica all’ambiente, dalla solidarietà alle nuove tecnologie. In questa tensione totale verso l’eccellenza il Teatro Verdi rappresenta uno degli elementi vincenti. Lo testimoniano l’applauditissimo concerto di Natale al Senato della Repubblica, l’attenzione costante degli organi d’informazione nazionali, la presenza dei più illustri protagonisti della scena canora, musicale e teatrale. I più grandi accolgono con entusiasmo l’invito di Salerno donando immense emozioni a tutti gli spettatori. L’arte, in questi tempi complessi, diventa un elemento d’identità civica, di speranza personale e collettiva, di esaltazione estetica e mobilitazione civile.
Andiamo avanti con coraggio e determinazione, con le nostre forze non potendo contare sul sostegno, che sarebbe doveroso, di altri enti territoriali. Senza mai perdere di vista l’intento di assicurare un programma d’alto livello agli spettatori che ormai giungono anche dall’estero e di continuare ad offrire a tanti talenti salernitani, campani, italiani la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni artistiche. In questi anni abbiamo creato centinaia di posti di lavoro con l’Orchestra, il Coro, Scenografie, Costumi, Luci, Servizi Generali.
Desidero ringraziare per questi traguardi il maestro Daniel Oren, lo staff del Teatro ed i servizi del Comune di Salerno, gli artisti, la stampa ma soprattutto il pubblico che con il suo affetto ed il suo entusiasmo ci induce ogni anno a far di più e meglio!
Buona musica a tutti noi!

Vincenzo De Luca Sindaco di Salerno

“La traviata: un grande ritratto di psicologia in musica”.
di Rosanna Di Giuseppe

Verdi scelse il soggetto della Traviata consapevole della sua eccezionalità:"A Venezia faccio la Dame aux camélias che avrà per titolo, forse, Traviata. Un soggetto dell’epoca. Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi e per mille goffi scrupoli…Io faccio con tutto il piacere. Tutti gridavano quando io proposi un gobbo da mettere in scena. Ebbene io ero felice di scrivere il Rigoletto" così scriveva mentre lavorava alla Traviata al suo amico napoletano Cesarino De Sanctis. Tratta dal dramma recentissimo di Alexandre Dumas figlio, rappresentato a partire dal febbraio 1852 al Théâtre del Vaudeville a Parigi (il romanzo era del 1848), l’opera sostanzialmente vi si attiene, salvo qualche abbreviazione. Come si sa, quello che sarebbe diventato uno dei melodrammi più rappresentati al mondo, andò incontro ad un fiasco clamoroso nella sua prima esecuzione, il 6 marzo 1853 alla Fenice di Venezia, per poi essere riscattato circa un anno dopo dal grande successo della sua ripresa avvenuta sempre a Venezia, nel Teatro San Benedetto (ancora un insuccesso sarebbe stato invece registrato a Napoli nell’ottobre del 1854). Tra le ragioni della caduta fu pure, oltre alle innovazioni formali, quella dell’ambientazione contemporanea, tanto è vero che nel corso dell’Ottocento la rappresentazione della Traviata fu retrodatata al 1700, all’epoca di Luigi XIII, con Alfredo assurdamente in abiti da moschettiere. Eppure Verdi, malgrado i rischi che presentava, aveva voluto fortemente quel libretto nell’intento di allontanarsi dal melodramma storico e di inseguire nuovi interessi. Sensibile allo spirito del tempo egli aveva avvertito già dal ’49 che era ormai superata l’opera patriottica, cosicché a partire da Luisa Miller e Stiffelio aveva iniziato un nuovo corso della sua ricerca drammaturgica privilegiando soggetti privati e borghesi, con al centro dei grandi personaggi e in particolar modo l’animo femminile, da indagare psicologicamente pur sempre in una visione complessa in cui l’analisi della passione amorosa da sempre centrale nel melodramma è giudicata ormai esaurita e piuttosto da calare all’interno di più articolati rapporti familiari, umani, sociali. D’altronde egli non faceva altro che sviluppare un allargamento di orizzonti del melodramma romantico rispetto all’univocità del sentimento amoroso già iniziato negli anni Quaranta circa dell’Ottocento nelle opere mature di Donizetti.
Il preludio della Traviata è la cifra della nuova disposizione intima dell’autore, ormai lontano dai cimenti roboanti delle opere risorgimentali. La novità di quest’opera è inoltre nel realismo della vita comune, come l’autore stesso ribadiva ancora in una lettera al De Sanctis scritta in seguito all’ insuccesso dell’opera a Napoli:"…Perché sul vostro San Carlo non si potrà rappresentare indifferentemente una regina od una paesana, una donna virtuosa o una puttana? […] Se si può morire di veleno o di spada perché non si può morire di tisi o di peste! Tutto ciò non succede forse nella vita comune?".
Ultima opera della famosa “trilogia romantica” comprendente Rigoletto e il Trovatore con le cui fasi conclusive venne a sovrapporsi nella sua genesi, si rivolge all’ambiente contemporaneo e al tema amoroso intrecciato con quello della denuncia dei pregiudizi e ipocrisie della società borghese di cui lo stesso Verdi era evidentemente rimasto vittima nella sua relazione con la Strepponi. L’ispiratrice di Violetta è quella Dame au camélias che aveva riportato nel romanzo, in un contesto decadente, le vicende biografiche di un personaggio realmente esistito nella prima metà del secolo, Marie Duplessis, ragazza dai facili costumi morta a soli 23 anni di tubercolosi, frequentatrice del bel mondo, cortigiana di lusso, definita da qualcuno “consolatrice intellettuale” di celebri artisti tra cui si annoverano Alfred De Musset e Franz Liszt, e appunto Alessandro Dumas figlio di cui costituì una grande passione giovanile. Dal romanzo fu adattato qualche anno dopo il fortunato omonimo lavoro teatrale. È stata sottolineata da Marcello Conati la lunga frequentazione che Verdi ha avuto quando era a Parigi negli anni 1847-49, dei teatri di boulevard, dove si davano appunto mélodrames, vale a dire pièces teatrali popolari che facevano abbondante uso della musica e particolarmente attente all’effetto spettacolare, ipotizzando l’influenza di tali spettacoli sulla svolta drammaturgica verdiana degli anni 1849-59. Evidentemente a Verdi non interessavano ovviamente le musiche che li accompagnavano in quanto tali, ma gli effetti del mélodrame stesso, la sua particolare dinamica scenico-musicale, la sua tecnica di “dramma parlato con accompagnamento musicale”. D’altronde in Francia quella produzione teatrale con le varie trasformazioni subite durante la prima metà dell’Ottocento fu fondamentale per la nascita del drame romantique degli anni Trenta soprattutto quando il mélodrame abbandonò il lieto fine.Verdi venne ad esempio probabilmente a conoscenza di Kabale und Liebe di Schiller (da cui trasse la Luisa Miller) attraverso l’adattamento abbastanza rispettoso che ne aveva fatto Dumas padre per il Thèatre Historique nel 1847, nel periodo in cui Verdi reduce da Londra per la rappresentazione dei Masnadieri approdò a Parigi. Di recente Emilio Sala ha dimostrato la relazione tra certi effetti drammatico-musicali di quegli spettacoli con il “laboratorio” compositivo verdiano. Quando nel febbraio del 1852 la versione teatrale della Dame au camélias ( “pièce mêlée de chant”) fu data al Théatre du Vaudeville per un seguito di ben cento rappresentazioni, Verdi era di nuovo a Parigi ed è presumibilmente attendibile la testimonianza dei fratelli Escudier secondo cui egli assisté ad una di esse. Quello spettacolo arrivò poi in Italia al Teatro Re di Milano, in francese, mentre nella traduzione italiana apparve al Teatro Apollo sempre a Milano nel febbraio-marzo 1853, mentre si provava l’opera di Verdi alla Fenice di Venezia. Le musiche di scena della pièce francese erano state firmate da Édouard Montaubry, in esse questi aveva utilizzato tantissimo le forme del valzer e della polka (un sorta di “valzer a due tempi”) che saranno i ritmi privilegiati della Traviata,"forse in nessun’altra opera come ne La Traviata, Verdi sfrutta i ritmi e le melodie di ballo, e in particolar modo quelli del valzer" (Surian). D’altronde nella mitografia ottocentesca di questa danza, essa è sinonimo di amore sensuale, di coppia chiusa, di vita mondana ma anche di “dispersione esistenziale” e della vita che passa. Ad apertura di sipario la Traviata esibisce platealmente il suo ritmo caratterizzante. Il libretto di Francesco Maria Piave riproduce in sostanza il piano drammatico del romanzo e poi dramma di Dumas. Le differenze consistono nella riduzione di quest’ultimo da cinque a tre atti (è omesso il secondo atto di Dumas) e nel cambiamento dei nomi dei personaggi: Margherita Gautier diventa Violetta Valéry; Armando Duval, Alfredo Germont.Verdi vi introduce di più forse un’accentuazione del sacrificio d’amore che esalta una dimensione tutta femminile e privata al di là dei condizionamenti sociali. Due preludi che precedono rispettivamente il primo e il terzo atto, incorniciano la materia trattata, il primo in tonalità maggiore, il secondo in minore a esemplificazione del passaggio dall’idillio alla catastrofe attraverso cui si compie la vicenda. L’inizio dell’opera è in medias res, in mezzo al corso della vita, con l’irruzione della musica di festa come già nel Rigoletto. Tutto il primo atto è brillante, festoso e descrive il carattere frivolo di Violetta che appare tuttavia subito un personaggio dalla dimensione poetica nella sua in qualche modo coraggiosa leggerezza incurante di qualsiasi possibile risvolto negativo. Nella riduzione operistica non sussiste più alcuna delle volgarità che ancora connotavano l’ambiente e il personaggio nel romanzo originario. In tale contesto si descrive l’innamoramento dei due protagonisti. Un mancamento di Violetta durante lo svolgimento della festa è l’unico presagio di sventura che viene a minare la dominante allegrezza dell’atto espressa al massimo nel celebre brindisi in cui si brinda al vino, all’amore, alle gioie fuggevoli. Nel secondo atto accadono invece varie azioni fondamentali. Diviso in due quadri, nel primo, rappresentato dalla casa di campagna dove i due protagonisti si sono ritirati a vivere, assistiamo all’incontro di Germont padre conVioletta e alla conseguente drammatica decisione di quest’ultima di lasciare Alfredo; nel secondo quadro, in casa di Flora a Parigi, ancora durante una festa in maschera vi è l’azione terribile dell’offesa pubblica di Alfredo nei confronti dell’amata, quando in seguito alla conferma da lei ricevuta del suo nuovo amore per il barone Douphol le getta ai piedi una borsa di denaro. Nel terzo atto ritorna l’amore ma come nostalgia e ricordo, come amore impossibile nel momento ormai prossimo alla morte, il lento e inesorabile svanire della vita di Violetta si consuma in una stanza chiusa mentre fuori per le strade impazza il carnevale.
Stilisticamente siamo al culmine di quello che Massimo Mila definisce lo stile vocale verdiano rispetto al percorso intrapreso nelle opere a seguire che egli considera di tipo vocale-strumentale a indicare l’interesse che il musicista allargherà sempre di più in direzione dell’approfondimento della funzione drammaturgica dello strumentale accanto a quella della vocalità, assieme alla ricerca di una più variegata e ampia espressione musicale, percorso che coinciderà con il progressivo affinamento della scrittura orchestrale. In realtà quest’ultimo comincia già in Traviata sebbene in tale lavoro la ricerca vocale raggiunga il suo culmine nel connubio con la dominante espressiva dello “psicologismo”. Mai come qui la verità psicologica è portata a pieno nel discorso musicale, sia vocale che orchestrale. Basti pensare ai due preludi laddove il primo già descrive il carattere della protagonista con quei violini divisi, gli otto primi e gli otto secondi che dipingono la sua fragilità fisica, e in cui si espongono e preannunciano i sentimenti essenziali dell’opera come quella frase appassionata dell’ "Amami Alfredo" che esploderà nel secondo atto. Preceduta dallo sconfortato a solo del clarinetto durante la stesura della lettera, essa non è un’aria ma una frase “che si espande” costituendo la svolta psicologica della vicenda. La dimensione realistica dell’opera è poi prevalentemente nel suo stile di conversazione che viene a frantumare o a camuffare le forme convenzionali o a rompere la consueta cantabilità della voce per riportarci in molti casi, si pensi in particolare al terzo atto, alla dimensione della pura recitazione. È per questo motivo che i cantanti della Traviata devono essere dotati di grandi capacità attoriali. Sintomatico di questo indirizzare le convenzioni formali verso uno stile discorsivo è quel lunghissimo duetto tra Germont e Violetta del secondo atto in cui si fa fatica a riconoscere le sezioni consuete della forma tradizionale per una dilatazione appunto di quelle cinetiche. Si pensi, come individuato da Powers, a quelle schegge impazzite di “tempo d’attacco” nel diverbio tra Violetta e Germont (II, 5): “Pura siccome un angelo”, “Ah comprendo,…no! giammai!”, “Non sapete quale affetto”, “È grave il sagrifizio”, “Bella voi siete e giovine” “Un dì quando le veneri” e “Così alla misera” tra l’altro in perfetto dialogo epressivo con l’orchestra, che soltanto retrospettivamente in seguito al raggiungimento lirico dell’adagio “Dite alla giovine”, si configurano quali componenti di un unico movimentato tempo dinamico in cui si utilizzano in libertà recitativo, arioso, strofe liriche, ma avente tuttavia una sua precisa direzione, con una perfetta coincidenza dell’emozione nel canto. Il personaggio principale anche altrove esprime la mobilità e sensibilità della sua psicologia in uno stile aforistico e duttile, trascorrendo dal lirismo ai limiti del parlato. Non è priva di impeto la sua vocalità come nel brindisi del primo atto con il suo indovinatissimo ed esuberante intervallo di sesta nell’incipit o nella cavatina e cabaletta che concludono lo stesso, appropriati diagrammi della conflittualità che segna la nascita in lei del sentimento amoroso oltre che delle due caratteristiche fondamentali del personaggio, la capacità di amare e la frivolezza (“Ah forse è lui che l’anima”, “Sempre libera”), ma altrove, in particolar modo nel secondo atto, sono solo brevi intense frasi melodiche ad esprimere il suo sentire ( “Ah, se ciò è ver fuggitemi” nel primo colloquio con Alfredo, o “Ah, perché venni incauta! Pietà gran Dio di me” e simili nel secondo atto). Anche le forme convenzionali quando ci sono, come “Addio del passato” o “Prendi quest’è l’immagine” del terzo atto, ritornano solo per essere interrotte. Nel duetto “Parigi o cara” l’effusione sentimentale torna ad essere piena ma per condurre all’irrompere della disperazione di Violetta nella cabaletta “Oh Dio morir sì giovane”.
Anche i personaggi maschili si definiscono in quest’opera per riflesso rispetto alla grande personalità di lei. È in rapporto a lei, come notato da Mila che essi acquisiscono passione e calore. Alfredo dichiara il suo amore a Violetta in una melodia intimistica “un dì felice eterea in cui si manifesta per la prima volta a pieno la “tinta” della Traviata (Budden), così com’è caratterizzata da intervalli ravvicinati e da una semplice scansione sillabica che ha richiamato alla mente il linguaggio tipico delle “composizioni da camera” (così il Basevi). Lo slancio espansivo della sua dichiarazione è nel brano “di quell’amor ch’è palpito” che diventa nel corso dell’opera il motivo reminiscenza dell’amore tra Alfredo e Violetta. Questa dapprima si oppone ad Alfredo con la sua frivolezza che è tutta nella coloratura (i vocalizzi di “follie, follie” connotano la sua inebriante sete di piacere), ma egli insiste nell’inneggiare all’amore, “Croce e delizia al cor” che vincerà e si rivelerà vero soprattutto per Violetta. La genialità della scena è che essa si svolge mentre sullo sfondo continua a scorrere il tempo reale della festa, come se si trattasse di una “inquadratura a stacco” , laddove si evince la grande abilità drammaturgica acquisita dal compositore e la tecnica ormai messa a punto di fare emergere in primo piano problematiche individuali su uno sfondo complesso. Questo dato a maggior ragione si rileva dai pezzi d’assieme costruiti aggregando elementi eterogenei e contrastanti eppure collegati da sottili trame musicali, basti pensare ad esempio al finale secondo dell’opera, la movimentata scena della partita a carte su cui si staglia il dialogo litigioso tra Violetta e Alfredo.
Giorgio Germont è uno dei tanti padri baritonali verdiani, egli ha il suo momento lirico nell’aria “Di Provenza il mar, il suol” con cui cerca di consolare il figlio nel ricordo dei luoghi natii. La sua piena umanizzazione avviene nell’ultimo atto quando si rende conto del male commesso (“Ah mal cauto vegliardo” con l’insistenza della voce sul si naturale sottolineato dal disegno cromatico dell’orchestra- Lanza Tomasi) e si presenta a Violetta pronto ad accettarla.
Ella muore solennemente a conclusione del suo sacrificio d’amore all’interno di un sommesso concertato che ha inizio alle parole “Prendi quest’è l’immagine”. Il tessuto orchestrale così come la vita di Violetta risulta assottigliato sempre più, gli accordi ribattuti in pianissimo dell’andante sostenuto dicono la delicatezza del personaggio, ma la strumentazione fa largo uso delle trombe (Mila), quasi morisse un eroe beethoveniano o un Sigfrido. Un ultimo tocco teatrale è quell’apparente miracolo della ripresa di vita di Violetta (“È strano…cessarono gli spasmi”) con un progressivo crescendo al fortissimo dell’orchestra fino al pronunciare esaltata il suo ultimo grido, in un si bemolle acuto: "Oh, gioia!" nell’illusione di ritornare a vivere, prima di esalare invece l’ultimo respiro. La tela cala su accordi in fortissimo dell’orchestra mentre un ritratto indelebile è stato impresso nella nostra memoria in una delle più grandi realizzazioni del teatro musicale.

L’intervista al regista Enrico Stinchelli
Maestro quale sarà il suo rapporto con il melodramma verdiano?
Amo molto il capolavoro verdiano come spettatore prima ancora che come regista, sono da sempre soprattutto un grande appassionato d'opera. La passione è il motore che muove ogni cosa nella mia vita, è un sentimento complesso intimamente legato al destino della propria esistenza e, la mia, è consacrata all'opera. In un continuo fluire una nell'altra gli elementi vita/opera finiscono per fondersi e confondersi uno nell'altro e si finisce a vivere con l'opera e vivere l'opera. Non mi ritengo semplicemente un realizzatore di spettacoli come di solito il regista viene considerato ma piuttosto come una persona che vive intensamente e profondamente lo spettacolo e che vorrebbe che lo stesso accadesse per ogni spettatore.
L'opera quindi come forma di grande passione?
Possiamo dire che l'opera rappresenta davvero una forma di vita. In una crisi globale come quella che ci troviamo a vivere, dove sono sovvertite tutte le regole in un incessante turbine che fagocita i valori più profondi e ancestrali, l'opera può incarnare veramente un nuovo modus vivendi che rende vivibile la vita stessa. Tutto nel mondo è o dovrebbe essere Opera, e se realmente ciò fosse...state certi che molte brutture non si vedrebbero.
Suggestioni profonde ed intense in questa Traviata.
L'opera è segnata da tratti di modernità quasi rivoluzionari, si tinge di chiaroscuri che corrono lungo la sottile linea di due ombre ben distinte: la prima leggera, quasi frivola, legata alla mondanità degli eventi, che si intreccia con l'aspetto meramente sentimentale dell'opera e si adagia sul ritmo di valzer; la seconda, che rincorre lo spettro della morte e della malattia, è quella drammatica, funebre e solenne. Una partitura drammatica che si riflette nel sogno di un amore illusorio, che in maniera speculare affianca e sovrappone diversi stati d'animo, ponendo al centro della scena una donna sola nel popoloso deserto che chiamano Parigi, ma che è un luogo senza tempo, dove non esiste ieri e oggi e sicuramente neanche il domani.
Come sarà il suo allestimento?
Il mio modo di vivere l'opera si concreta nel rispetto della drammaturgia e della bellezza in sé del lavoro. Pur considerando La Traviata un'opera eterna e senza tempo, dai tratti profondamente contemporanei l'allestimento sarà piuttosto classico. Abbiamo incorniciato la vicenda sui vezzi della Belle Epoque, i nostri personaggi profumeranno di respiro liberty, un periodo gioioso caratterizzato dalla joie de vivre.
Lei ha avuto la possibilità di abbeverarsi alle fonti della grande cinematografia, cominciando la sua carriera come assistente di Luigi Comencini, ci sarà in questo lavoro una testimonianza del suo storico retaggio artistico?
La chiave del mio lavoro risiede anche nella marcata impostazione cinematografica che imprimo nel mio allestimento. Amo ricordare l'utilizzo delle due T: tradizione e tecnologia, unione perfetta di due elementi fondamentali. L'ausilio della tecnologia permette di evidenziare e sottolineare alcuni passaggi drammatici e infatti utilizzerò per questa Traviata delle proiezioni video che dialogheranno con tutto il resto della messinscena. Non sarà un apporto statico il loro, ma una collaborazione costantemente attiva e partecipe all'interno della quale le immagini scorrerano all'unisono con le vite dei personaggi e con il fraseggio musicale, in una continua mescolanza di emozioni e giochi prospettici intensi, senza che questo, naturalmente, intacchi il ruolo assoluto della musica.
In scena troneggiano grandi carte da gioco e una specchiera, da quale suggestione nasce quest'esigenza scenografica?
L'idea che ha mosso tutto il mio lavoro scenografico nasce dalla volontà di mettere in scena degli elementi emblematici capaci di far immergere immediatamente lo spettatore nei luoghi, nei profumi e nei colori che animano gli ambienti dell'opera, luoghi che siano in grado di veicolare i diversi stato d'animo che a momenti alterni i protagonisti vivono in scena. Le carte da gioco ovviamente ci introducono nelle feste chiassose animate dalla vana e vacua spensieratezza del demi-monde, dove danzano insieme gioco, denaro, fortuna e sesso. La grande specchiera simboleggia il riflesso dell'anima di Violetta e le mostra le scene della sua vita tra sogno e realtà.
La protagonista come si muoverà nelle sue scene?
Violetta è una ragazza circondata dal cinismo e dall'indifferenza. Partecipa a una festa ma la sua anima vaga altrove, come sollecitata non da uno ma da diecimila pensieri. Gli invitati sono tanti, vi è una parvenza di gioia e di divertimento, ma lei ne è continuamente distaccata. Ombre, larve che si muovono intorno a lei. Alfredo è l'illusione, il sogno di una vita borghese, nella norma, che però non è nemmeno il vero sogno di Violetta, che è e resta una grande vittima.
Un personaggio enigmatico si muove in palcoscenico...
Un personaggio inquietante, silenzioso, è onnipresente: appare nella festa del I atto, ma anche in casa di Flora ….è una giovane ragazza diafana, che somiglia vagamente a Violetta...la osserva, la scruta, è galante. Capiremo alla fine quale sia il suo terribile compito.

 
 
 
 
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