Report dal World Social Forum di Nairobi (Kenya).
-Seconda parte-
Il secondo giorno, dopo la manifestazione di apertura del WSF che era partita da Kibera, una delle grandi periferie di Nairobi, una baraccopoli di oltre 250 mila persone, e si era conclusa in una esplosione di suoni e colori all’Hururu Park di Nairobi, decidiamo di andare a Korogocho.
Qui è prevista la celebrazione della messa da parte di padre Alex Zanotelli, il missionario comboniano che ha trascorso più di sedici anni qui, in questa discarica di un chilometro quadrato sulla quale vivono oltre 150mila persone. O forse 250mila: qui in Africa i numeri spesso non dicono nulla.
Di certo è che il posto è terribile. La povertà è terribile. la tocchiamo con mano, la vediamo con gli occhi. Ci penetra con gli odori, le esalazioni che vengono su dalla terra impastata con le plastiche della discarica che affiorano sotto i nostri piedi. Lungo la strada di penetrazione a Korogocho una fila ininterrotta di baracche, alcune con scritte improbabili: hotel, piccoli spacci di merce misera. Molti vendono per pochi scellini barattoli pieni di carbone. Una donna impasta e frigge piccole pagnotte di farina di mais su un ripiano di legno ricavato da una vecchia porta. I bambini si affollano scalzi, emergendo dalle buche piene di rifiuti. Alcuni hanno tra i denti piccole bottiglie di plastica piene di colla, che aspirano. Con gli occhi spenti. Ma i più ci guardano con grandi occhi vivaci e ci urlano in cantilena: how are you?
Il pullman ci lascia direttamente dentro la missione dei comboniani: non è consigliabile girare nella baraccopoli. La sera prima un gruppo di partecipanti al forum, che aveva preso un taxi per portarsi a Korogocho, era stato fermato e spogliato di tutto. Una imprudenza con il sapore della provocazione in una zona in cui i bambini muoiono letteralmente di fame, in cui quasi tutti quelli che riescono a farlo campano con meno di settanta scellini keniani al giorno. Meno di un dollaro al giorno, molto meno di un euro. Qui la percentuale di sieropositivi, compresi i bambini, raggiunge la metà della popolazione residente.
Nel recinto della missione incontriamo Alex: è felice di ritrovarsi dopo anni tra il suo popolo. Che lo chiama per nome, Father Alex, e lo circonda, lo tocca, lo abbraccia. Alex parla loro in swaili, mentre si avvia a celebrare messa coperto di paramenti con colori sgargianti e disegni africani.
Tutta la sua messa, che celebra con i suoi fratelli, è una reinvenzione che accoglie spunti e sensibilità africani: si apre con un saluto al sole e procede con canti e ritmi neri. Prosegue con la benedizione dell’acqua e ha il suo culmine con lo scambio dei gesti di pace: ognuno lega al polso di chi gli sta vicino un filo verde.
Gruppi di fedeli con una fascia e la scritta “St. John Church”, il nome della missione comboniana a Korogocho, si fanno carico di tenere l’ordine nell’arena sobriamente coperta che ospita migliaia di persone che continuano ad affluire. E di frotte enormi di bambini che si accalcano attorno a questi strani nuovi amici che vengono da Father Alex.
Durante tutta la funzione ci sommergono di gesti affettuosi, toccano le nostre mani troppo pallide, tirano con delicatezza i peli che ci coprono le braccia. Quando faccio per offrire qualcosa ad una piccolissima vestita di stracci mi indica la bottiglietta d’acqua che avevo portato per reggere una giornata di caldo estivo all’equatore. Maji, mi chiede. La prende e la difende dagli altri bambini. Dopo aver bevuto, me la restituisce, ed è felice quando le mostro che può tenerla.
Intanto Zanotelli ha pronunciato la sua omelia, tutta politica. Commenta la lettera di Paolo alla comunità di Corinto alla quale ricorda che erano giudei e pagani che con il battesimo sono diventati un unico corpo, che non può dividersi: ogni membro ha una sua funzione. Richiama l’impegno per una politica di eguaglianza e di giustizia. E ricorda che la predixazione di Cristo avveniva sotto il giogo di un impero, quello romano, come noi oggi siamo sottoposti alle vessazioni di un altro impero. Chiude, citando una frase del vescovo sudafricano Desmond Tutu che diceva che ai poveri –è vero- è riservata una torta in paradiso, ma vogliamo che una piccola fetta possano assaggiarla anche qui, in terra.
Alla fine della funzione un gruppo di abitanti della baraccopoli ci invita alle loro case.
Rose ci accompagna per il fitto intrico di viottoli di Korogocho. È una giovane donna aiuta nei lavori della missione. Il marito lo ha perso qualche anno fa, e vive con una figlia già grande e due bambini più piccoli.
Lungo le stradine si aprono infiniti passaggi verso l’interno della baraccopoli. Qualche oca beve nei rigagnoli di scolo. Di tanto in tanto un cartello con l’indicazione di una missione, una baracca-scuola aperta tra altre baracche, un carretto con un mazzo di erba assai poco nutriente che qui tagliano a strisce sottili e cuociono: la chiamano, con termine swaili ‘il tira fine settimana’, per risolvere un poco il problema di nutrirsi.
La baracca di Rose misurerà due metri per due, ma è tenuta con un certo garbo, alle pareti di lamiera sino inchiodate le foto del marito e dei figli. Due piccoli divani recuperati dalla discarica sono appoggiati alle pareti. Rose è orgogliosa della sua casa. È il segno che riesce a tenere assieme la sua famiglia, che può farcela a dare un futuro ai suoi figli. La sua è la forza che abbiamo notato in tante donne africane. Sarà forse da loro che nascerà questo nuovo mondo possibile che è lo slogan dei Forum sociali mondiali.
Torniamo alla missione dei comboniani dove si svolge un Festival dei bambini di strada. I ragazzi di Korogocho hanno allestito uno spettacolo straordinario. Una infinità di gruppi si alternano in canti e balli di incredibile bellezza. La vitalità che esprimono è contagiosa. Nessuno riesce a rimanere fermo sui gradoni di cemento della arena dove in mattinata si è svolta la cerimonia religiosa di Alex.
Di tanto in tanto qualche ragazzo stravolto dalla colla si avvicina al palco. I suoi compagni lo invitano ad allontanarsi e consentire lo svolgimento della festa. Perché quella è la loro festa, un momento sereno nell’inferno della baraccopoli.
La sera, in albergo, nessuno di noi se la sente di parlare. Abbiamo ancora, appiccicata addosso, la terra impastata di miseria di Korogocho. Quello che abbiamo visto esiste davvero. È davvero questo il mondo che abbiamo costruito. Questo è il nostro sviluppo, questo il prezzo che due terzi del mondo paga per consentire il nostro stile di vita, la civiltà di cui andiamo tanto fieri. Non ci sentiremo mai abbastanza in colpa per tutto questo.
Fatico ad addormentarmi.
Ernesto Scelza
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